mercoledì 2 settembre 2009

Intervento sulla Radio Svizzera

al programma Modem si discute di Gheddafi

La piccola invasione del cantiere Libia

Articolo su Il Riformista

Tripoli - Sono giorni di festa per la Libia. Si è cominciato domenica scorsa con la giornata dedicata all’amicizia italo-libica, voluta da Gheddafi per festeggiare la ricorrenza di un anno dalla firma dell’accordo di Bengasi. Si è proseguito ieri con il vertice dei paesi dell’Unione africana e terminerà, ma è un modo di dire perche i festeggiamenti continueranno diversi giorni, con il quarantesimo anniversario della rivoluzione compiuta dal Colonnello il 1° settembre del 1969. Una Tripoli disseminata come mai dai cartelloni con il ritratto di Gheddafi e il numero 40, un vero marketing del culto dell’immagine, sta accogliendo in questi giorni migliaia di delegazioni con l’organizzazione tipica libica, poca programmazione compensata da grande disponibilità. Non sembra affatto un festeggiamento in tono minore quello che si prepara ad accogliere sulla piazza Verde, ex piazza Italia, una folla oceanica pronta ad osannare Gheddafi, nonostante l’annunciata assenza di dei vari Sarkozy, Brown e Berlusconi, ma con la presenza di aerei, musici e artisti da ogni parte del mondo, Francia e Gran Bretagna comprese. Il Presidente del Consiglio era comunque presente domenica per la giornata d’amicizia in cui con il Leader libico ha inaugurato il primo tratto, poche centinaia di metri, della ormai famosa autostrada che dovrebbe essere costruita con quei 250 milioni di dollari annui che l’Italia donerà alla Libia a compensazione dei danni coloniali.
Il tono non sarà minore, non solo perché a Gheddafi non piacciono le mezze misure e rimane sempre “imprevedibile” (“ma non inaffidabile”) come l’ha definito Lamberto Dini in questi giorni, ma non lo sarà neppure perché dopo quarant’anni, forse veramente per la prima volta, la Libia di Gheddafi, un paese con poco più di 5 milioni di persone, ha conseguito lo status che il suo leader ha lungamente inseguito. È in pace con tutti, dopo aver mosso guerra a molti. È corteggiato da tante potenze mondiali nonostante le accuse di anti-democraticità del regime. Si è ricavato uno spazio geopolitico, l’Africa, in cui esercitare, con poche interferenze rispetto al passato, la propria leadership.
Due sere fa alla cena tenutasi nel parco del porto di Tripoli sedevano al tavolo non solo Berlusconi e Gheddafi, ma anche una ventina dei leader africani, tra cui quello senegalese Deby e il tunisino Bourghiba, oltre naturalmente ai principali dirigenti, come Scaroni dell’ENI, delle aziende italiane che in Libia fanno affari e, sperano, sempre più ne faranno.
Ma l’obbiettivo di Gheddafi appare anche quello di portare la piccola e media industria in Libia, quella più capace di creare le condizioni di fioritura di una piccola industria locale. Con questo scopo l’ambasciata libica in italia ha invitato a Tripoli a proprie spese una delegazioni di piccoli imprenditori, una folta compagnia che, chi con più esperienza e conoscenza del paese, chi con poca o nessuna, si accinge a guardare con curiosità e speranza ad un paese che si è riaperto all’occidente. Insieme ad essi anche molti italiani, circa 240 che furono espulsi da Tripoli nel 1970, e a cui Gheddafi, pare abbia promesso di ricompensare indirettamente con un trattamento privilegiato nell’assegnazione dei numerosi lavori di cui la Libia necessita.
Del passato però non si dimenticano i libici che domenica nella giornata dell’amicizia hanno inaugurato a Tripoli una mostra fotografica sul colonialismo italiano che non è stata apprezzata dall’ambasciatore italiano Trupiano. Gheddafi non può rinunciare ad una delle fonti principali di legittimità del regime in un paese che, prima dell’arrivo di Gheddafi, era pressoché privo di una identità nazionale che l’esistenza del “nemico esterno”, italiano o americano che fosse, ha contribuito a costruire. Questi ricordi però oggi non possono essere accompagnati da rivendicazioni politiche od economiche che il trattato dello scorso anno ha definitivamente escluso.
La sfida della Libia di oggi rimane quella dello sviluppo che mostra i suoi segni più evidenti nelle centinaia di cantieri, soprattutto di aziende edili cinesi, che stanno trasformandojavascript:void(0) il paese e nella presenza massiccia di stranieri che in essi lavorano. Basta andare a fare un giro nella medina tra le strette vie della vecchia città per incontrare intere zone popolate di sudanesi, ciadiani, eritrei, ecc… Non tutti vogliono venire in Italia, quasi tutti hanno saputo che la Libia ha chiuso i cordoni. Proprio domenica mentre Gheddafi e Berlusconi inauguravano l’autostrada una nave con 70 somali è stata bloccata dal pattugliamento congiunto messo in atto dalle due marine.

In quarant'anni il Colonnello Gheddafi ha cambiato faccia alla Libia

Articolo su L'Occidentale

giovedì 30 luglio 2009

mercoledì 22 luglio 2009

Gheddafi e l’Unione africana: legittimità internazionale, influenza regionale e sviluppo interno

ISPI Policy Brief

Abstract: The second visit to Italy by Muammar Gheddafi this year has been in his capacity as Chairman of the African Union.
After many years of Pan-African rhetoric and inter-African activism, the Libyan leader is at the head of the continental organisation and is in a position to both steer the organisation towards his origi-nal dreams and to reap the benefit in terms of international legitimisation, regional influ-ence and internal development.


Il ritorno di Muammar Ghed-dafi in Italia per il vertice G8 tenutosi a L’Aquila come rap-presentante dell’Unione afri-cana, ha riportato l’attenzione verso il ruolo della Libia nel continente. Sin dal suo arrivo al potere, con il colpo di stato compiuto quasi quarant’anni fa, il 1° settembre 1969, il leader libico ha visto l’Africa come possibile area geopoliti-ca di propria influenza. Oggi, la Libia dimostra ancor mag-giore, interesse verso il conti-nente.
Continua...

giovedì 16 luglio 2009

La svolta "africana" di Gheddafi riavvicina la Libia all'Occidente

Varvelli su L'Occidentale

All’ambizioso progetto dell’unità araba Gheddafi ha ormai rinunciato. Nei suoi 40 anni di potere sono stati numerosi e svariati i tentativi falliti di federare la Libia: prima con Egitto e Sudan nel 1970, di nuovo con l’Egitto nel 1973, poi con la Tunisia nel 1974. Nei dieci anni successivi furono intrapresi analoghi tentativi nei confronti della Tunisia, del Ciad, del Marocco, della Siria, dell’Algeria e del Sudan. Tutti falliti. Il centro dell’interesse di Gheddafi è ora l’Africa e l’Unità africana, l’organizzazione nata tra il 1999 e il 2003 di cui è uno dei principali promotori.

Come suo rappresentante si è presentato all’ultimo G8 italiano, è stato ricevuto da Berlusconi, si è seduto al tavolo dei grandi e ha stretto la mano ad Obama. Come “re dei re” africani pochi giorni prima aveva rilanciato la creazione degli “Stati Uniti d’Africa”.

continua...

martedì 7 luglio 2009

Sergio Romano su "L'Italia e l'ascesa di Gheddafi"


Lettere al Corriere

IL PETROLIO LIBICO E L’ITALIA DALLE PAROLE AI FATTI

Sono uno studente
universitario di economia, e molto interessato al rapporto storico Eni-Libia. Può aiutarmi a inquadrare il problema?
Andrea Rossato

Caro Rossato, Sulla questione del petrolio
libico negli anni che precedettero e seguirono la Seconda guerra mondiale esiste anzitutto il libro molto interessante di Giuseppe Buccianti («Libia: petrolio e indipendenza») pubblicato qualche anno fa dall’editore Giuffré permette di comprendere meglio gli sviluppi di una vicenda che comincia con gli accordi conclusi dall’Eni nell’ultima fase della monarchia di re Idris per lo sfruttamento di due importanti giacimenti.
Il colpo di Stato militare del 1969, l’avvento al potere di Muammar Gheddafi e la cacciata degli italiani dal Paese nei mesi seguenti sembrarono segnare la fine degli ambiziosi progetti concepiti dall’Italia per la riconquista economica della Libia. Ma nel giro di un anno la situazione cominciò a migliorare. In un libro recente («L’Italia e l’ascesa di Gheddafi», Baldini Castoldi Dalai ed.) Arturo Varvelli ricorda che i tecnici e i dirigenti italiani si erano ridotti a qualche decina nel 1970, ma divennero 1530 nel 1972 e 5200 nel 1974. Dietro le affermazioni demagogiche della dirigenza libica vi era la convinzione che l’Italia fosse, per ragioni storiche e geografiche, il partner più utile e naturale.
Molti contatti furono ristabiliti spontaneamente, alla spicciolata.
Ma il problema dell’Eni era più complicato. Il nuovo regime non intendeva riconoscere gli accordi stipulati dal governo del re con le società petrolifere straniere e sembrava deciso a rivendicare il controllo dell’intero settore.
Uno dei temi in discussione era la percentuale della presenza libica nella impresa congiunta che si sarebbe costituita fra l’Eni e la Lnoc (Libyan National Oil Corporation). Il 51%, come richiesto dai negoziatori di Tripoli? O il 50%, come desiderato dall’Eni? E ancora: come sarebbero state ripartite le spese che l’Eni aveva già sostenuto per lo sfruttamento dei due giacimenti?
A quale prezzo l’Eni avrebbe potuto comprare la quota di petrolio spettante alla Libia?
Al prezzo del mercato, come voleva l’Eni, o a un prezzo maggiorato come chiedevano i libici?
La questione si complicò ulteriormente quando i libici fecero capire che l’affare sarebbe andato in porto soltanto se l’Italia avesse accettato di fornire armi che erano in buona parte fabbricate da noi su licenza americana.
Cominciò così una partita a tre in cui l’Italia dovette negoziare su due fronti: con i libici per convincerli a moderare le loro richieste, con gli americani per indurli ad autorizzare l’esportazione di materiale bellico.
Secondo Varvelli la persona che ebbe in questa fase un ruolo decisivo fu Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio.
Fu Andreotti che, scavalcando il ministro degli Esteri (Aldo Moro), fece pressioni su Washington. I suoi argomenti furono soprattutto due. In primo luogo sostenne che le armi, se l’Italia non fosse stata autorizzata a venderle, sarebbero giunte in Libia dal blocco sovietico e avrebbero rafforzato i rapporti di Gheddafi con l’Urss. In secondo luogo lasciò intendere che l’accordo sul petrolio si sarebbe fatto a condizioni sfavorevoli per l’Eni e avrebbe rappresentato un brutto precedente per le imprese straniere che erano in lista d’attesa. L’azione ebbe successo, l’accordo venne firmato il 30 settembre 1972 e dette soddisfazione a quasi tutte le richieste dell’Eni. Fu probabilmente il migliore accordo stipulato in quegli anni da un’azienda straniera con il regime di Gheddafi.

"Perchè la Libia vuole entrare in Finmeccanica. Il precedente della Liatec" Varvelli su Il Riformista

Perchè la Libia vuole entrare in Finmeccanica. Il precedente della Liatec
Riformista del 7 luglio 2009

Non lo fanno per dare una mano all’economia italiana, ma hanno precisi interessi di sviluppo e crescita. Le recenti attenzioni nei confronti di aziende italiane dei libici, verso Finmeccanica, e dei cinesi, con l’accordo di joint venture con la FIAT reso pubblico ieri, nascondono il desiderio di mettere mano a tecnologie di difficile reperibilità per paesi poveri di know-how capace di far compiere alle rispettive economie un salto di qualità che si rende sempre più necessario.
Le motivazioni che stanno dietro alle operazioni libiche sono essenzialmente economiche: una di natura più contingente, l’altra più strategica e legata allo sviluppo futuro. Dal primo punto di vista, quello strettamente finanziario, come nel caso di Finmeccanica o dell’ENI, le azioni delle società italiane, dopo il collasso dei mercati seguente alla crisi mondiale, costituiscono certamente un buon investimento per chi disponga di liquidità, mentre per il governo italiano sono una sorta di piano di salvataggio o rafforzamento nel quale però non sborsa un euro. Dal punto di vista libico, i fondi alimentati dalla rendita petrolifera vengono impiegati principalmente per ridurre l’impatto della volatilità delle entrate petrolifere (i prezzi del greggio sono da sempre soggetti a sbalzi) ma anche per garantire alle generazioni future gli stessi potenziali di crescita attuali: la rendita da capitale dovrebbe progressivamente sostituire la rendita petrolifera man mano che si esauriranno le riserve di idrocarburi, momento comunque, tutt’altro che vicino.
Ma esiste anche una seconda motivazione, più strategica. Osservando i settori di interesse dei fondi libici - quello energetico, quello dell’alta tecnologia, quello bancario, e quello delle infrastrutture - si può constatare come la finalità sia non solo quella di investire allo scopo di massimizzare i rendimenti entro certi margini di rischio, ma anche ottenere partecipazioni in settori potenzialmente strategici per lo sviluppo libico. Essere azionisti in società che operano in questi settori è una garanzia rispetto agli investimenti italiani in Libia in quelle aree strategiche che sono essenziali nel processo di riforma economica avviato dal regime libico negli ultimi anni. Gli investimenti libici in Italia si inseriscono in una strategia più ampia, della quale costituiscono solamente una parte, orientata all’ottenimento del know-how necessario allo sviluppo dell’economia libica.
In realtà questa partnership si basa su una proposta italiana nata già negli anni Settanta, quando l’Italia soffriva della crisi energetica. L’offerta dei governanti di allora (Moro e Andreotti su tutti) ai governi arabi era chiara: uno scambio “tecnologia per petrolio”. Ma allora le condizioni non erano mature e gli arabi erano impegnati a cercare di ottenere dal rapporto con l’Europa e l’Occidente immediati vantaggi economici (facendo salire il prezzo del petrolio) o concessioni politiche, principalmente sulla questione israelo-palestinese. Oggi paiono più lungimiranti. Figli di una educazione ricevuta nelle università americane o europee, le classi dirigenti mediorientali prestano attenzione al loro sviluppo futuro e quindi a quelle tecnologie senza le quali sembra impossibile passare da un’economia di rendita ad una maggiormente differenziata e più moderna.
Per Finmeccanica si tratta di consolidare le relazioni con un partner con cui sono già state firmate importanti trattative nei settori dell’elicotteristica, della sicurezza e dei trasporti, quest’ultimo attraverso l’Ansaldo. Già esiste una collaborazione che nel 2010 produrrà i primi risultati: un impianto di assemblaggio e manutenzione della Liatec (Libyan Italian Advanced Technology Company), la joint venture paritetica costituita nel 2007 con Agusta Westland, proprietà di Finmeccanica. Infine, nel trattato di amicizia tra i due paesi si prevede un ruolo di primo piano dell’Italia per il controllo dei confini a sud del paese. I satelliti “made in Italy” sono pronti a guidare gli uomini del Colonnello per fermare l’immigrazione clandestina, una minaccia anche per il suo regime.
Come si è visto nel caso FIAT-Chrysler il know-how è una risorsa vitale. I cinesi se ne sono accorti. Marchionne ha siglato con i vertici della cinese Gac, Guangzhou automotive company, un’intesa per la costituzione di una joint venture industriale con l’obbiettivo di produrre motori e auto Fiat per il mercato cinese con l’avvio della produzione nella seconda metà del 2011. Con differenti obiettivi strategici, ma con l’intento d’acquisizione di competenze e tecnologie si sta quindi muovendo anche la Cina. Non è una coincidenza che con la visita in corso del presidente cinese Hu Jintao in Italia, il governo di Pechino abbia anche cominciato a pensare ad investimenti finanziari direttamente in Italia, essenzialmente di beni strumentali, e in particolare nei settori dell’energia rinnovabile e della tecnologia nucleare. La Cina ha iniziato a fare shopping in Europa già da tempo con l’obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale con il vecchio continente che è sbilanciata troppo a favore dei cinesi. Interesse che potrebbe anche trasformarsi a breve nella partecipazione del fondo sovrano cinese a una grande compagnia italiana, ad esempio in Enel, ma anche in diverse PMI, in particolare nel tessile e nella meccanica, settori di tradizionale sviluppo cinese.
I dubbi sul fatto che queste partecipazioni ci rendano più sicuri perché tutti più interconnessi e globalizzati o, invece, più insicuri e sottoposti ad una costante perdita di sovranità su alcuni fondamentali settori strategici, rimangono. Le paure legate alla possibilità di OPA ostili lanciate da fondi sovrani avevano portato il governo ad approvare a dicembre una norma volta a rafforzare gli amministratori in caso di offerta d’acquisto. Si era anche parlato di un comitato congiunto esteri-tesoro a cui sarebbe spettata una valutazione precauzionale degli investimenti dei fondi sovrani in Italia, ma non si sa che fine abbia fatto. Nel frattempo, nonostante tutto, la tecnologia italiana rimane ricercata sui mercati internazionali.

Varvelli su Formiche del mese di luglio



Gheddafi: sarà vera svolta?


Quarant’anni dopo la sua nascita il regime libico di Muammar Gheddafi appare stabile e forte come non lo è mai stato. Dopo la revoca delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite e dagli Stati Uniti e il completo ripristino delle relazioni diplomatiche libico-americane, il paese appartiene a pieno titolo alla comunità internazionale. A cominciare dal 2004 gli incontri del Leader, come preferisce essere chiamato dopo che nel 1973 ha rinunciato a qualsiasi carica formale, con i rappresentanti occidentali sono stati numerosi: Prodi, Blair, Berlusconi, Aznar, Sarkozy, Rice e molti altri. A questi si aggiungono le due visite storiche di giugno e luglio in Italia, primi viaggi di Gheddafi compiuti nel nostro paese, resi possibili solo dopo la firma del Trattato di amicizia tra i due paesi concluso a Bengasi il 30 agosto 2008.
Proprio questa normalizzazione delle relazioni internazionali e il nuovo legame con l’Occidente hanno permesso al regime di rafforzarsi, facendo eclissare ogni possibilità di “regime change” guidato dall’esterno e consentendo il rilancio della propria industria petrolifera, dalle cui entrate dipende sostanzialmente il mantenimento del potere di Gheddafi. Come nelle più classiche economie del Golfo, il regime, grazie ai proventi del petrolio e del gas, può distribuire la rendita alla popolazione attraverso la creazione di posti di lavoro pubblici, una politica dei prezzi controllata dallo Stato e un sistema di sussidi ai beni di prima necessità capace di fornire gratuitamente al cittadino libico tutti i servizi essenziali: scuole, ospedali e molte abitazioni. Il consenso e l’aiuto degli europei e degli occidentali è oggi richiesto proprio per il know-how necessario per il mantenimento della capacità libica sia di estrarre il petrolio che fornisce la rendita, sia di attuare il processo di distribuzione della stessa, che avviene grazie alla realizzazione occidentale, e soprattutto italiana, di molte opere civili e alla importazione di beni primari e prodotti finiti.
L’obbiettivo di Gheddafi rimane quello della conservazione del potere e oggi ciò può essere ottenuto solamente con una crescita economica che gli permetta ancora una volta di accreditarsi come “guida” del suo popolo. L’anelito rivoluzionario verso una società diversa, come auspicata nel Libro Verde da lui scritto, non è fine a se stesso. Anzi, dopo la rinuncia al “nemico esterno”, identificato a seconda delle circostanze nell’Italia colonialista o nell’America imperialista, esso è rimasto come fonte principale di legittimità del regime in un paese che, prima dell’arrivo di Gheddafi, era pressoché privo di una identità nazionale definita.
L’ammodernamento delle infrastrutture, le moderate aperture verso il mercato e il libero commercio degli ultimi anni hanno lo scopo di cominciare a dar vita ad una piccola e media industria che consenta di affrontare uno straordinario incremento demografico e le conseguenze da esso creato, prima fra tutte un’elevata disoccupazione giovanile. Grazie al fatto che l’economia libica negli ultimi anni ha goduto di buona salute, soprattutto per merito degli elevati prezzi petroliferi, il regime di Tripoli ha potuto avviare una progressiva privatizzazione dell’economia. Dal punto di vista politico la svolta moderata della Libia ha offerto le garanzie necessarie ai paesi e alle imprese straniere per operare con maggior convinzione nel paese. Tripoli, pur nelle incoerenze del regime, è dunque avviata sulla strada di una graduale e prudente riforma, che, minimizzando i rischi di destabilizzazione, possa attirare gli investimenti esteri fuori dal settore degli idrocarburi e diversificare l’economia.
Sul fronte interno il consenso sul principio dell’apertura economica pare non abbia grandi oppositori nonostante una sempre più crescente divisione tra le due anime della dirigenza libica: una riformista vera fautrice di una transizione in senso più occidentale e propositrice anche di riforme politiche che includano la revisione delle strutture del paese, anche nel senso della creazione di una costituzione che garantisca al cittadino libico doveri ma, soprattutto, diritti; e una vecchia guardia più attenta alle questioni interne, ad una ridistribuzione diretta al popolo dei proventi del petrolio, alla eliminazione di alcune strutture amministrative, e maggiormente resistente alla liberalizzazione dell’economia e più critica al riavvicinamento con l’Occidente, reputato troppo rapido.
Il dosaggio di tempi e modi dell’apertura spetta naturalmente a Gheddafi. Il risultato è che la politica economica libica rimane disarticolata e solo negli ultimi anni ha dimostrato una preoccupazione per lo sviluppo post-petrolifero. Le preoccupazioni del Colonnello sono essenzialmente di carattere sociale. I mercati, come indica il caso libico, non esistono in un vuoto amministrativo, sociale e istituzionale. Per creare mercati interni competitivi non è sufficiente eliminare quelle parti della burocrazia che controllano e regolano il flusso di beni e servizi, come è stato fatto con il tentativo di eliminare i ministeri. Lo stato deve attivamente dispiegare e creare gli strumenti a sua disposizione per portare a termine i difficili compiti di amministrazione e di regolazione indiretta per definire i diritti di proprietà, per fare osservare i contratti, tagliare i costi di transazione e, infine, promuovere una concorrenza reale. Intraprendere quindi il percorso della riforma economica significa, seppur progressivamente, mettere in discussione quel contratto sociale tra il regime e i cittadini basato sulla distribuzione della rendita proprio perché questa viene notevolmente riorientata. Questa, quindi, la preoccupazione principale di Gheddafi: quella di perdere la sua funzione principale di distributore di ricchezza. Riguardo a ciò vanno presi in considerazione due dati: l’80% circa della popolazione è nata e vissuta sotto il regime di Gheddafi e non conosce quindi sistema diverso da quello della Jamahiriya, lo Stato delle Masse; quest’ultimo ha comunque garantito condizioni di sviluppo sociale di testa tra i paesi dell’Africa del Nord con un 56esimo posto a livello mondiale secondo l’indice di sviluppo umano dell’Undp.
Alcuni fattori macroeconomici testimoniano il percorso intrapreso dalla Libia: buoni tassi di crescita degli ultimi anni, con un ruolo dominante del settore non petrolifero; elevate entrate petrolifere (esportazioni per più di 51 miliardi di dollari nel 2008 rispetto ai 10 miliardi del 2002) e connesse ingenti riserve valutarie. Alcuni importanti progressi in tema di riforme strutturali sono stati compiuti nel corso degli ultimi anni. Un buon numero di imprese pubbliche sono state privatizzate con la riduzione di un terzo dei dipendenti pubblici. Importanti banche sono state privatizzate e anche le banche italiane, nazionalizzate negli anni Settanta, stanno tornando in Libia. Nel 2007 la creazione del fondo sovrano Libyan Investment Authority ha accresciuto la trasparenza della gestione delle entrate petrolifere e sono cominciati i grandi investimenti in aziende occidentali, soprattutto in Italia (Eni, Enel e Unicredit le più importanti).
Osservando i settori di interesse dei fondi libici - quello energetico, bancario, finanziario e delle infrastrutture - si può constatare come la finalità sia quella di investire allo scopo di massimizzare i rendimenti, ma anche di ottenere partecipazioni in settori potenzialmente strategici per lo sviluppo libico. I fondi alimentati dalla rendita petrolifera vengono infatti impiegati principalmente per ridurre l’impatto della volatilità delle entrate petrolifere ma anche per garantire alle generazioni future gli stessi potenziali di crescita attuali: la rendita da capitale dovrebbe progressivamente sostituire la rendita petrolifera via via che si esauriranno le riserve di idrocarburi. Allo stesso tempo, essere azionisti in società che operano in questi settori è una garanzia rispetto agli investimenti italiani in Libia in quelle aree strategiche che sono essenziali nel processo di riforma economica.
Naturalmente questa trasformazione non può prescindere da un forte legame con i paesi più sviluppati. E questa è probabilmente, insieme al pericolo islamico interno, la motivazione principale che ha spinto Gheddafi nell’ultimo decennio alla svolta moderata, alle parziali ammissioni di colpa sugli attentati terroristici ed alle aperture agli Stati Uniti. Perché questo passaggio abbia pieno successo la Libia ha bisogno della comunità internazionale, dell’Europa e dell’Italia.

giovedì 11 giugno 2009

Varvelli su Il Sole24Ore

L'articolo su Omar al-Muqhtar sul Sole 24 ore

La visita di Gheddafi su L'Occidentale

La retorica anti-italiana serve a Gheddafi quanto gli accordi economici

di
Arturo Varvelli
11 Giugno 2009

Gheddafi ha sorpreso ancora una volta. Quando tutti si aspettavano semplici parole di riconciliazione il leader libico ha trovato modo di far ricordare agli italiani le malefatte compiute in Libia in epoca coloniale appuntandosi la fotografia di Omar al Mukhtar al petto. Ha sorpreso ancora una volta, come seppe farlo con la confisca di tutti i beni e la successiva espulsione degli italiani dalla Libia nel luglio del 1970. Allora il Colonnello volle accreditarsi presso i libici come continuatore di quella politica di liberazione dalla presenza italiana intrapresa nel periodo coloniale da Omar, l’insegnante cirenaico che aveva guidato i suoi fedeli seguaci, compreso il padre di Gheddafi, nella resistenza contro gli italiani che ebbe termine solo con l’impiccagione di Omar nel 1931. Gheddafi aveva allora bisogno di un “mito fondante” della propria nazione. Necessitava di un gesto forte che lo rendesse popolare e insieme lo imponesse come leader autoritario all’interno del Consiglio Rivoluzionario.

continua...

Il Riformista su L'Italia e l'ascesa di Gheddafi nel giorno della visita in Italia del Colonnello

Riformista 11 giugno 2009 - articolo di Stefano Feltri

L'agenzia stampa cinese mi intervista sulla visita di Gheddafi a Roma

Ghaddafi's historical visit to Italy paves way for Libya-EU ties

By Silvia Marchetti

ROME, June 10 (Xinhua) -- Libyan leader Muammar Ghaddafi on Wednesday started his first historical visit to Rome. The 3-day visit is set to boost Libya-Italy bilateral relations and pave way for closer cooperation with the European Union (EU) on economic and immigration issues.

Ghaddafi's visit to Rome is the product of 40 years of hard-spun diplomatic negotiations. It follows the signature in August 2008 of the Treaty on Friendship, Partnership and Cooperation between Italy and Libya which officially put an end to the long-lasting colonial dispute by granting material compensation to Libya and launching a strategic economic and anti-immigration partnership.

Upon arrival, Ghaddafi met with the Italian head of state Giorgio Napolitano and Prime Minister Silvio Berlusconi.

"A painful chapter of history is finally over," Berlusconi said when he welcomed Ghaddafi at the airport, according to local news agencies.

Napolitano said that "this historical visit paves the way to stronger bilateral ties between Italy and Libya."

Berlusconi and Ghaddafi signed important bilateral agreements to boost economic, scientific and technical cooperation in sea resources, develop student exchange programs and implement special fiscal measures for companies' investments.

"Berlusconi is a man of great courage, he has taken the historic decision to apologize for Italy's colonialist damage to Libya and he is the only Western leader to have done so. This is why I am here today in Rome," Ghaddafi told reporters at a joint press conference.

"An era has closed and a new one begins, the merit goes to premier Berlusconi. Italy is now our friend and Libya is open to all Italian companies wanting to do business," Ghaddafi added.

Berlusconi, remembering the "suffering of the Libyan people," said the strategic partnership is the product of many years of hard work done by his predecessors. "I am very happy that there are no more contrasts between our countries," he added.

Ghaddafi said he will push the UN General Assembly to assign a permanent seat to Italy. "Italy has defeated Fascism and deserves it more than many other countries."

Ghaddafi added as well that he will present to the UN refugee agency a strategic document for the fight against sea piracy in Somalia.

On Thursday Ghaddafi will give a speech at the Italian Senate and at La Sapienza state university, while he will meet on Friday with the Italian association of entrepreneurs and a delegation of 700 women.

According to Arturo Varvelli, researcher at the Milan-based ISPI institute of international politics and author of Italy and the rise of Ghaddafi, "the Libyan leader's trip to Rome will pave way for greater Libya-EU relations, especially in the fight against illegal immigration."

continua...

Recensione del Il Giornale su L'Italia e l'ascesa di Gheddafi

mercoledì 8 aprile 2009

Qualcosa si muove...? Si sono accorti di internet... qualche anno dopo

De Bortoli al Corriere, il discorso

De Bortoli.... Mi candido, qualche consiglio te lo darei gratis... non quello del sito del Corriere a pagamento però.

lunedì 6 aprile 2009

domenica 1 marzo 2009

Panebianco sul Corriere spiega bene "i pericoli del nuovo corso"

L'articolo che avrei voluto scrivere...

di Angelo Panebianco
No, we cannot. L'inquietudine e le preoccupazioni per i primi passi dell'Amministrazione Obama, per il modo in cui il nuovo Presidente americano sta reagendo alla crisi economica, crescono fra gli osservatori. Tutti sappiamo che le decisioni dell'America ci riguardano, che la crisi mondiale, là cominciata, può finire solo se l'America farà le scelte giuste contribuendo a ricostituire la fiducia perduta dei mercati e ponendo le condizioni per il rilancio, in tutto il mondo, della crescita. Il dubbio che serpeggia è che il nuovo Presidente possa non rivelarsi all'altezza, che la Presidenza Obama possa un domani, quando verrà il momento dei bilanci, mostrare di avere qualcosa in comune con l'Amministrazione (repubblicana) di Herbert Hoover, la quale, con le sue scelte sbagliate, aggravò la crisi seguita al crollo di Wall Street del 1929.

Certo è che fin qui i mercati hanno reagito con scetticismo o addirittura negativamente a tutti gli annunci e a tutte le decisioni prese dall'Amministrazione. Ciò nonostante, Obama sembra deciso a pagare le cambiali contratte in campagna elettorale con la sinistra americana: piano sanitario nazionale, rivoluzione verde, massicci investimenti pubblici, tasse più elevate per gli alti redditi. La dilatazione della spesa pubblica implica un cambiamento epocale, il passaggio a una fase di forte presenza statale nella vita economica e sociale americana. Ma è proprio quella la ricetta giusta per rassicurare i mercati e rilanciare consumi e investimenti? Se lo sarà, la Presidenza Obama risulterà un successo e non solo l'America ma tutto il mondo ne verranno beneficiati. Altrimenti, la crisi si aggraverà e ci vorranno molti più anni di quelli che oggi gli esperti prevedono per uscirne. Nell'attesa, possiamo però già valutare alcune conseguenze che la crisi, e le prime risposte dell’Amministrazione Obama, stanno determinando in tutto il mondo.

continua sul Corriere

Continuano le interviste...

Varvelli per le "Tre domande a..." dell'Ispi


Intervista a Ian Tabot sulla situazione Pakistana

e intervista a Denis Bauchard sulle elezioni israeliane

martedì 10 febbraio 2009

7 anni dopo

"Le società civilizzate, almeno sembra, sono a tal punto assuefatte alla violenza, da aver perso il loro dono di essere disgustate dal male".
Il padre di Daniel Pearl.

lunedì 2 febbraio 2009

Intervista al Gen. Fabio Mini sul recente conflitto di Gaza

di Arturo Varvelli

Su ISPI ALERT
"Tre domande a Fabio Mini"
leggi sulle pagine dell'ISPI

domenica 1 febbraio 2009

Con Obama torna il vero american dream: l'indipendenza energetica

Su "Il Riformista" di oggi 1 febbraio 2009

di Arturo Varvelli
Il tema dell’indipendenza energetica lanciato in queste ore dal presidente Obama non è un tema nuovo. Soprattutto per gli Stati Uniti. La questione emerse negli anni cinquanta di fronte al continuo crescere della quota petrolifera che gli Stati Uniti importavano dall’estero rispetto alla quota prodotta internamente. Nel 1948, per la prima volta gli USA scoprirono di essere diventati un importatore netto di greggio; l’avvenimento esercitò un forte impatto sulla psicologia americana. Per gli strateghi il passaggio al nuovo status venne percepito come una perdita definitiva dell’indipendenza energetica, nonché della capacità di coprire quasi l’80 per cento del consumo europeo di prodotti petroliferi. Ma le responsabilità americane in quel periodo erano gravose. Con l’approvazione del piano Marshall, il congresso degli Stati Uniti proclamò il principio dell’autosufficienza petrolifera dei due emisferi, raccomandando che gli approvvigionamenti energetici europei fossero per quanto possibile rappresentati da fonti esterne agli Usa.
Nel 1959 il presidente Eisenhower, anche per le pressioni delle compagnie petrolifere “indipendenti” che operavano prevalentemente su territorio statunitense, cedette alla tentazione indipendentista con lo scopo di liberare la politica americana dalle costrizioni mediorientali. Venne approvato il Mandatory Oil Program che fissava un tetto massimo per le importazioni pari al 13 per cento del consumo interno. Ciò causò una serie di conseguenze: le “sette sorelle” furono costrette ad abbassare i prezzi del greggio sul mercato internazionale con il conseguente disappunto dei paesi produttori e l’aumento della conflittualità tra occidentali e paesi arabi. Il provvedimento non avrà successo. Gerald Ford e Richard Nixon ci riprovarono negli anni Settanta. Anche allora si voleva “raggiungere l’indipendenza energetica”, e l’autarchia produttiva sembrava la soluzione ottimale. Sia Nixon che poi Carter, nonostante i loro piani, si trovarono ad affrontare problemi enormi proprio in Medio Oriente. Nixon dovette gestire la crisi dello Yom Kippur, con il corollario della ritorsione anti-americana dell’Opec. Carter vide sbriciolarsi l’equilibrio dell’Iran, con i russi che entrarono in Afghanistan: una seria minaccia alle riserve del Golfo Persico.
Ma l’idea dell’indipendenza energetica non ha pervaso solo gli Stati Uniti. Prima di loro ci aveva provato la Germania nazista. Nel 1936 Hitler si lanciò in un piano massiccio per la costruzione di trenta impianti dedicati alla produzione di combustibili sintetici attraverso la reazione dell’idrogeno con il carbone. La leggenda della ricerca dell’indipendenza energetica alimenterà fantasie come quelle narrate nel film con Marlon Brando “la formula” in cui i tedeschi si impossessavano della formula segreta per un combustibile sintetico capace di soppiantare il petrolio. In verità tutti i combustibili sintetici si riveleranno troppo costosi e poco efficienti.
A tanti anni di distanza, le idee sembrano cambiate poco. Le idee dei vecchi presidenti sono sopravvissute a vari sconvolgimenti, tra la caduta dell’Urss e la rinascita cinese, per approdare tranquille allo studio ovale alla Casa Bianca. Obama vorrebbe sfruttare meglio le energie rinnovabili, e spingere per creare automobili più efficienti. L’indipendenza energetica sembra esser vista, da qualcuno, anche come soluzione per contenere il prezzo del barile. Ma ci sono molti dubbi che ciò possa funzionare. Il mercato dell’energia è mondiale, e se il prezzo del barile aumenta in Europa, lo fa anche negli Stati Uniti. Nei periodi di crisi l’America è stata tentata più volte dall’isolazionismo. È una tentazione che è riemersa prepotentemente anche nello scorso anno di campagna elettorale.
In realtà, come spiega bene Leonardo Maugeri in “L’era del petrolio” è un non-senso l’idea di “liberare” i paesi consumatori dalla dipendenza del greggio del Medio Oriente o quella di attuare strategie per passare a fonti energetiche diverse. In passato si sono sempre rilevati esercizi sterili poiché, nel mondo reale, il processo di sostituzione di una risorsa con un’altra è guidato da processi economici e non politici. Così è successo ad esempio con il passaggio dal legno al carbone e poi ancora dal carbone al petrolio. Questi si sono rivelati più economici e più efficienti dei predecessori e li hanno soppiantati. Il tentativo nazista non fallì dal punto di vista tecnico ma da quello economico. Rimane un’illusione l’idea che le decisioni politiche possano ignorare le leggi dell’economia. Si può investire maggiormente in ricerca ma i risultati di una politica che tendesse ad affrancarsi dal petrolio mediorientale avrebbe oggi soprattutto l’effetto di indebolire le economie di chi la attuasse. Né sembra poter contribuire a combattere il terrorismo limitandone i finanziamenti che derivano dai proventi petroliferi. Soprattutto oggi i paesi arabi non avrebbero problemi a trovare altri compratori.