martedì 7 luglio 2009

"Perchè la Libia vuole entrare in Finmeccanica. Il precedente della Liatec" Varvelli su Il Riformista

Perchè la Libia vuole entrare in Finmeccanica. Il precedente della Liatec
Riformista del 7 luglio 2009

Non lo fanno per dare una mano all’economia italiana, ma hanno precisi interessi di sviluppo e crescita. Le recenti attenzioni nei confronti di aziende italiane dei libici, verso Finmeccanica, e dei cinesi, con l’accordo di joint venture con la FIAT reso pubblico ieri, nascondono il desiderio di mettere mano a tecnologie di difficile reperibilità per paesi poveri di know-how capace di far compiere alle rispettive economie un salto di qualità che si rende sempre più necessario.
Le motivazioni che stanno dietro alle operazioni libiche sono essenzialmente economiche: una di natura più contingente, l’altra più strategica e legata allo sviluppo futuro. Dal primo punto di vista, quello strettamente finanziario, come nel caso di Finmeccanica o dell’ENI, le azioni delle società italiane, dopo il collasso dei mercati seguente alla crisi mondiale, costituiscono certamente un buon investimento per chi disponga di liquidità, mentre per il governo italiano sono una sorta di piano di salvataggio o rafforzamento nel quale però non sborsa un euro. Dal punto di vista libico, i fondi alimentati dalla rendita petrolifera vengono impiegati principalmente per ridurre l’impatto della volatilità delle entrate petrolifere (i prezzi del greggio sono da sempre soggetti a sbalzi) ma anche per garantire alle generazioni future gli stessi potenziali di crescita attuali: la rendita da capitale dovrebbe progressivamente sostituire la rendita petrolifera man mano che si esauriranno le riserve di idrocarburi, momento comunque, tutt’altro che vicino.
Ma esiste anche una seconda motivazione, più strategica. Osservando i settori di interesse dei fondi libici - quello energetico, quello dell’alta tecnologia, quello bancario, e quello delle infrastrutture - si può constatare come la finalità sia non solo quella di investire allo scopo di massimizzare i rendimenti entro certi margini di rischio, ma anche ottenere partecipazioni in settori potenzialmente strategici per lo sviluppo libico. Essere azionisti in società che operano in questi settori è una garanzia rispetto agli investimenti italiani in Libia in quelle aree strategiche che sono essenziali nel processo di riforma economica avviato dal regime libico negli ultimi anni. Gli investimenti libici in Italia si inseriscono in una strategia più ampia, della quale costituiscono solamente una parte, orientata all’ottenimento del know-how necessario allo sviluppo dell’economia libica.
In realtà questa partnership si basa su una proposta italiana nata già negli anni Settanta, quando l’Italia soffriva della crisi energetica. L’offerta dei governanti di allora (Moro e Andreotti su tutti) ai governi arabi era chiara: uno scambio “tecnologia per petrolio”. Ma allora le condizioni non erano mature e gli arabi erano impegnati a cercare di ottenere dal rapporto con l’Europa e l’Occidente immediati vantaggi economici (facendo salire il prezzo del petrolio) o concessioni politiche, principalmente sulla questione israelo-palestinese. Oggi paiono più lungimiranti. Figli di una educazione ricevuta nelle università americane o europee, le classi dirigenti mediorientali prestano attenzione al loro sviluppo futuro e quindi a quelle tecnologie senza le quali sembra impossibile passare da un’economia di rendita ad una maggiormente differenziata e più moderna.
Per Finmeccanica si tratta di consolidare le relazioni con un partner con cui sono già state firmate importanti trattative nei settori dell’elicotteristica, della sicurezza e dei trasporti, quest’ultimo attraverso l’Ansaldo. Già esiste una collaborazione che nel 2010 produrrà i primi risultati: un impianto di assemblaggio e manutenzione della Liatec (Libyan Italian Advanced Technology Company), la joint venture paritetica costituita nel 2007 con Agusta Westland, proprietà di Finmeccanica. Infine, nel trattato di amicizia tra i due paesi si prevede un ruolo di primo piano dell’Italia per il controllo dei confini a sud del paese. I satelliti “made in Italy” sono pronti a guidare gli uomini del Colonnello per fermare l’immigrazione clandestina, una minaccia anche per il suo regime.
Come si è visto nel caso FIAT-Chrysler il know-how è una risorsa vitale. I cinesi se ne sono accorti. Marchionne ha siglato con i vertici della cinese Gac, Guangzhou automotive company, un’intesa per la costituzione di una joint venture industriale con l’obbiettivo di produrre motori e auto Fiat per il mercato cinese con l’avvio della produzione nella seconda metà del 2011. Con differenti obiettivi strategici, ma con l’intento d’acquisizione di competenze e tecnologie si sta quindi muovendo anche la Cina. Non è una coincidenza che con la visita in corso del presidente cinese Hu Jintao in Italia, il governo di Pechino abbia anche cominciato a pensare ad investimenti finanziari direttamente in Italia, essenzialmente di beni strumentali, e in particolare nei settori dell’energia rinnovabile e della tecnologia nucleare. La Cina ha iniziato a fare shopping in Europa già da tempo con l’obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale con il vecchio continente che è sbilanciata troppo a favore dei cinesi. Interesse che potrebbe anche trasformarsi a breve nella partecipazione del fondo sovrano cinese a una grande compagnia italiana, ad esempio in Enel, ma anche in diverse PMI, in particolare nel tessile e nella meccanica, settori di tradizionale sviluppo cinese.
I dubbi sul fatto che queste partecipazioni ci rendano più sicuri perché tutti più interconnessi e globalizzati o, invece, più insicuri e sottoposti ad una costante perdita di sovranità su alcuni fondamentali settori strategici, rimangono. Le paure legate alla possibilità di OPA ostili lanciate da fondi sovrani avevano portato il governo ad approvare a dicembre una norma volta a rafforzare gli amministratori in caso di offerta d’acquisto. Si era anche parlato di un comitato congiunto esteri-tesoro a cui sarebbe spettata una valutazione precauzionale degli investimenti dei fondi sovrani in Italia, ma non si sa che fine abbia fatto. Nel frattempo, nonostante tutto, la tecnologia italiana rimane ricercata sui mercati internazionali.