domenica 28 dicembre 2008

Samuel Huntington: ma chi l'ha letto "The Clash of Civilization"?

E' morto uno dei politologi che hanno maggiormente segnato il dibattito post guerra fredda. Tuttavia, leggendo e ascoltando i media italiani, mi è sempre sembrato che tutti ne parlassero senza nemmeno averlo letto, fraintendendo la sua analisi (con una evidente capacità di previsione) con il suo auspicio. Samuel Huntington aveva semplicemente identificato nei fattori culturali, religiosi ed etnici (anzichè ideologici) i nuovi paradigmi su cui si sarebbero identificati e, probabilmente, divisi gli attori internazionali dopo la caduta del comunismo. Samuel Huntington non auspicava lo scontro, piuttosto riteneva che si sarebbe quasi inevitabilmente verificato... ma per capirlo bisognava leggerlo The Clash of Civilization...

Vittorio da Rold spiega bene sul Sole:
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2008/12/tramonto-ideologie-decadenza-Occidente.shtml?uuid=ba700836-d500-11dd-9138-0656feb089b0&DocRulesView=Libero

Geminello Alvi (un grande) pensa invece che il libro non lo avessero capito... io continuo a pensare che non lo avessero letto:
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=317200&START=1&2col=

martedì 9 dicembre 2008

L'America di Obama oltre al declino affronterà il declinismo

di Arturo Varvelli - Articolo pubblicato da Il Riformista, 7 dicembre 2008


Il declino statunitense è raccontato, annunciato e previsto, da storici, politologi ed economisti da almeno tre decenni. Il tema è di attualità dagli anni Settanta, quando il mondo affrontava le prime manifestazioni della crisi internazionale che seguì la fine del sistema di Bretton Woods e la sconfitta degli Stati Uniti nel Vietnam. I politologi erano preoccupati che si ripetesse la crisi e la grande depressione degli anni Trenta, per mancanza di una leadership mondiale. Per gli Stati Uniti sembrava allora molto difficile mantenere il proprio margine competitivo sui rivali - l’Europa e il Giappone - mentre i costi crescenti del contenimento dell’URSS trasformarono gli USA, a partire dagli anni Ottanta, nella nazione più indebitata del mondo.
Oggi la crisi finanziaria ed economica ha riproposto il tema: che il declino egemonico non sia solamente un quadro teorico? La congiuntura attuale e le debolezze statunitensi sembrano suggerire che il sistema internazionale si trovi di fronte a quella che molti osservatori internazionali hanno descritto come il “crollo della superpotenza americana” o il suo “inesorabile declino”, richiamando alla mente proprio i teorici delle relazioni internazionali che si sono occupati dei cicli dell’egemonia.
Rileggere oggi lo storico Paul Kennedy, che delinea la caduta della superpotenza con l’incapacità di finanziare il proprio ruolo nel mondo con le risorse interne, non appare un semplice esercizio di applicazione teorica alla realtà. Dal 1500 a oggi, questo è l'arco di tempo preso in esame da Kennedy, questa legge è sempre stata rispettata. Pur con approcci differenti, altri studiosi forniscono letture simili. Il sociologo Robert Gilpin identifica i fattori di crisi dell’egemone nella maggior crescita dei costi del mantenimento dello status quo rispetto alla capacità economica di sostenere lo stesso. Per l’egemone è impossibile conservare nel lungo periodo il monopolio delle capacità tecnologiche ed economiche all’origine del proprio successo poiché divengono patrimonio condiviso degli altri stati che finiscono per diventare suoi rivali. Inoltre le aspettative dei cittadini, che rifiutano di continuare a sopportare i sacrifici necessari, sempre maggiori, per preservare il ruolo egemonico, spingono affinché vengano privilegiati i consumi interni, nella logica “più burro e meno cannoni”. Anche dal lavoro dell’economista Charles Kindleberger si può trarre un monito per gli Stati Uniti di oggi e un paragone implicito. Egli vede la crisi del 1929 come conseguenza dell’incapacità britannica di continuare a svolgere il ruolo di leadership nell’economia e nella finanza internazionale che aveva avuto prima della guerra mondiale.
Curiosità del destino, le teorie egemoniche, frutto delle percezioni di debolezza degli Stati Uniti negli anni Settanta, trovarono massimo sviluppo e risalto nel decennio successivo, proprio mentre la potenza americana anziché ridimensionare il proprio ruolo si accingeva a vincere la guerra fredda sconfiggendo quello che era stato il nemico per più di quarant’anni: una Unione Sovietica che, lei sì, collassava su se stessa.
Secondo la maggior parte degli analisti internazionali, compresi quelli del National Intelligence Council del governo americano, la crisi finanziaria ed economica potrà riflettersi sull’influenza statunitense nel mondo. Ciò potrebbe spingere all’elaborazione di dottrine più selettive e ad un maggior coinvolgimento dei partner in una prospettiva maggiormente multilaterale, come le prime dichiarazioni del Presidente eletto Obama fanno presumere. L’egemone infatti non ha molte alternative per venire fuori da questa situazione. Può cercare di capovolgere il trend interno o ridurre il livello del proprio impegno internazionale e promuovere alleanze strategiche con altri stati, come in realtà fece la Gran Bretagna negli anni Trenta, principalmente verso gli Stati Uniti, di fronte al declino del proprio sistema imperiale. Ma anche gli Stati Uniti proprio durante gli anni Settanta fecero uso di questa strategia. La dottrina Nixon può essere interpretata come uno sforzo degli USA per sganciarsi da impegni difficili da mantenere e far gravare parte del peso della difesa dello status quo internazionale su altri paesi. L’avvicinamento americano alla Cina comunista fu un esempio. In cambio di una riduzione degli impegni americani nei confronti di Taiwan, gli americani chiesero la collaborazione cinese per contenere la potenza in espansione dell’Unione Sovietica.
A quale punto della parabola del declino siano oggi gli Stati Uniti e se esso sia veramente così prossimo e inevitabile non è quindi così facile a dirsi. Le società possono rigenerarsi e, in effetti, come scritto da Gilpin, lo hanno fatto: la Cina imperiale si rinnovò per molti secoli prima di raggiungere “una trappola” prodotta dalla diminuzione dei profitti e dalla stagnazione tecnologica; la Gran Bretagna si è ripresa varie volte nel corso di tre secoli prima di entrare in una fase di declino verso la fine del XIX secolo.
Oggi gli Stati Uniti non controllano più unilateralmente il mondo, tuttavia rimangono pur sempre, e di gran lunga, la maggior potenza politica, economica e militare. La storia può suggerire ancora. Come ha sostenuto proprio Paul Kennedy in questi giorni, il declino statunitense potrebbe essere rallentato: “Non so se Obama farà come Filippo II di Spagna, ma a volte per preservare il potere si dovranno scegliere alcune aree di influenza e rinunciare ad altre. Filippo II scelse le sue priorità al massimo del suo potere. E la sua restò una grande lezione per rallentare il declino di una grande potenza”.

lunedì 24 novembre 2008

Varvelli su Il Riformista

Passo qui il mio articolo sull'Affare Fiat-Libia del 1976 pubblicato domenica 23 novembre su "Il Riformista".


"La storia a volte si ripete. E quando c’è di mezzo il leader libico Muammar Gheddafi si ripete più sovente. Un parallelo storico è facilmente percorribile in queste settimane, dopo l’ingresso di soci libici in Unicredit e l’interesse mostrato dal Fondo Sovrano libico per altre aziende italiane. Nel 1976 la Libia entrò nel capitale della FIAT proprio nel momento in cui attraversava un periodo di forte crisi. Allora come oggi i libici avevano accumulato ingenti capitali dopo che negli anni precedenti le entrate petrolifere libiche erano straordinariamente cresciute per gli alti prezzi del greggio.

Il 1 dicembre del 1976 per la prima volta nella storia mondiale un paese arabo non vicino al mondo occidentale, attraverso la sua banca, la Libyan Arab Foreign Bank, acquistava, a seguito di un corrispettivo aumento di capitale, una percentuale (il 9,5%) di una grande azienda occidentale, entrando nel Consiglio di Amministrazione della FIAT. Agnelli e Romiti, con l’ausilio di Cuccia, avevano agito nel silenzio per 18 mesi senza avvisare il governo ma il solo Andreotti. Quando si erano fatti avanti i finanzieri di Gheddafi, il management del Lingotto non aveva potuto che spalancare loro le porte, visto che versavano, uno sull'altro, ben 415 milioni di dollari, una somma pari a un quarto del passivo dei conti italiani con l'estero di allora. Subito fu chiaro, però, che quell'investimento in petrodollari aveva per Gheddafi un valore politico che andava ben oltre l'interesse finanziario. L’investimento in Fiat era il biglietto da visita con cui legarsi alla grande finanza occidentale proprio in un periodo in cui il regime del Colonnello veniva guardato con sospetto sempre maggiore. Forse fu più opportunismo che strategia, ma le parole di allora di Abdallah Saudi, Presidente della banca libica, potrebbero essere state pronunciate oggi: “La Libia dispone di entrate valutarie superiori ai suoi bisogni interni e cerca occasioni di investimento all’estero in società con altri interessi, naturalmente di paesi amici: quando una buona occasione di investimento ci si presenta, naturalmente la afferriamo”.

L’Avvocato si era preoccupato delle possibili reazioni negative e si era prodigato in assicurazioni che escludevano una diretta partecipazione dei libici alla gestione dell’azienda torinese. C’era voluta molta accortezza per non vedersi piovere addosso critiche. Dopo essere volato a Londra e Parigi a spiegare le clausole e i motivi dell’intesa, Agnelli si era recato a Washinghton per tranquillizzare i principali esponenti dell’amministrazione americana e l’allora capo della CIA Bush padre. Essi temevano che i fiduciari di Gheddafi potessero venire a conoscenza di determinate tecnologie di carattere strategico o militare. Preoccupazioni che si amplificarono quando pochi giorni dopo Agnelli si incontrò con Gheddafi a Mosca. Secondo quanto riferito da Michael Ledeen, allora corrispondente da Roma di “New Repubblic”, e in rapporti con i servizi segreti statunitensi, l’accordo era stato raggiunto sulla base di uno schema triangolare di reciproche convergenze per cui, mentre Agnelli aveva bisogno di ricapitalizzare la Fiat, Gheddafi doveva saldare un grosso debito con il Cremino per l’acquisto di armamenti; e i russi, a loro volta, volevano che la Fiat costruisse una fabbrica di scavatrici per la quale era necessario trovare un finanziamento.

Ma dell’accordo si erano preoccupati per gli stessi motivi anche il governo e servizi segreti italiani. Secondo i documenti dell’archivio storico FIAT il 15 gennaio 1977 il capo del SID, Ammiraglio Mario Casardi, scriveva a Giovanni Agnelli: “Il recente accordo stipulato tra FIAT e Libyan Arab Foreign Bank prevede l’immissione nel Consiglio di Amministrazione di rappresentanti dell’Ente libico. Reputo doveroso rammentarLe che notizie o argomenti classificati in quanto interessanti la difesa e la sicurezza dello Stato non possono essere portati a conoscenza di persone prive di adeguata abilitazione (nulla osta di segretezza) da me rilasciata”. Agnelli tre giorni dopo rassicurava il capo dell’intelligence italiana: “Tengo subito a precisarLe che le materie riservate da Lei richiamate non costituiscono mai oggetto di esame o deliberazioni da parte del nostro Consiglio di Amministrazione. In ogni caso desidero assicurarLa che le disposizioni di sicurezza relative alle materie in questione ci sono ben presenti e che, come per il passato, ci atterremo scrupolosamente alle medesime anche per l’avvenire”.

L’investimento rimase isolato e i consiglieri libici in FIAT, secondo Agnelli, “non pretesero mai nulla”. Certo per i libici fu un successo economico: quando la banca di Tripoli uscì dalla FIAT nel 1986, dopo la crisi dei missili su Lampedusa, portò a casa 10 volte il capitale investito.

La vera novità è che i Gheddafi – a Muammar si è aggiunto Saif al-Islam, il figlio che sembra destinato a ereditare il potere dal padre - questa volta sembrano essere sbarcati in Italia per restarci più a lungo e per un investimento più differenziato e strategico. E ciò sta avvenendo quando, dopo decenni di crescente liberalizzazione, alcuni stati europei adottano un comportamento più difensivo verso la penetrazione dei fondi sovrani. La necessità di proteggere i settori strategici è invocata nella maggior parte dei casi. Come evidente con la creazione Comitato Strategico Esteri-Tesoro, questi settori non si limitano all’industria dell’armamento ma comprendono pure l’energia, le risorse naturali, le infrastrutture e la finanza. Proprio i settori che interessano ai Gheddafi per l’acquisizione del know-how necessario allo sviluppo libico come dimostrato dalle avance ad ENI, Telecom, Impregilo, Terna e Generali. Ma il Leader stavolta si è preparato la strada giusta: l’accordo che ha chiuso il contenzioso con l’Italia, approvato in Consiglio dei Ministri in questi giorni, e la piena riammissione della Libia nella comunità internazionale forniscono quella cornice politica necessaria agli investimenti che negli anni ’70 non era immaginabile poter costruire".

mercoledì 5 novembre 2008

venerdì 31 ottobre 2008

Segnalazioni saggistiche tra l'era post americana e i nuovi imperi

La crisi finanziaria ha scatenato una serie di analisi ed uscite sulla politica internazionale.
Un saggio provocatorio e pieno di dati sorprendenti di Fareed Zakaria, in uscita per i tipi di Rizzoli riporta d'attualità il tema del declino americano. L'autore ha 44 anni, è nato e cresciuto in India, e dirige l'edizione internazionale di 'Newsweek'. Nelle 280 pagine del libro "L'era post americana" (“ The Post-American World”), Zakaria dice: gli Stati Uniti stanno perdendo il predominio sul pianeta, perché la globalizzazione ha funzionato e stanno emergendo tanti nuovi centri di potere dislocati ovunque nel mondo. Gli Usa, dovrebbero prenderne coscienza, per frenare la propria caduta e per limitare i danni per se stessi e per il resto del mondo.

Ma non è l'unica uscita sull'argomento. Paul Kennedy ne ha parlato già alcune settimane fa: "quanto è successo conferma il lento declino statunitense, non la sua caduta. L'America non tornerà più ai livelli di grandezza del 1945, quando era l'unico Paese solido dopo la Seconda guerra mondiale. Il suo declino vede la contemporanea ascesa di altre potenze, come la Cina o l'India. Ma questo non cambierà nell'immediato e in tempi rapidi il suo ruolo di grande potenza".
(http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2008/10/Paul-Kennedy-usa-no-declino.shtml?uuid=b8bae8fe-92fb-11dd-9604-c1919a50b427&DocRulesView=Libero).

Poi Fukuyama: "Il potere e l’influenza dell’America poggiavano non solo sui nostri carri armati e i nostri dollari, ma anche sul fatto che la maggior parte della gente trovava attraente la forma di auto-governo americana e voleva rimodellare la sua società lungo le stesse linee - il «soft power», secondo la definizione del politologo Joseph Nye. E’ difficile sondare quanto questi due tratti caratteristici del «brand» americano siano stati screditati."

Ma anche in Italia c'è chi ha percepito come indispensabile cominciare a pensare ad una ri-definizione della politica mondiale in favore delle potenze emergenti. Gianluca Anzalone (1977), esperto di intelligence e strategia, ha scritto per Marsilio "I nuovi imperi. La mappa geopolitica del XXI secolo (prefazione a cura di Vittorio Emanuele Parsi). "Coloro che avevano profetizzato la fine della storia e della geografia con la caduta del Muro di Berlino devono ripensare le loro teorie sulla base di una impressionante accelerazione delle dinamiche politiche, economiche e sociali che ha caratterizzato quest'ultimo ventennio.
L'elemento territoriale, che gli analisti del villaggio globale volevano relegato agli atlanti del passato, torna ad affermarsi come discriminante nella competizione tra Stati. Una competizione per l'energia, il commercio, le nuove rotte di un mondo che ha fame di crescita e sete di petrolio.
Chi sono gli attori di questa nuova competizione globale? Innanzitutto gli Stati Uniti d'America, ma negli ultimi anni la storia registra il ritorno ad una aggressività geostrategica della Russia, che nell'energia e nella proiezione politica trova due formidabili strumenti di affermazione. La Cina, campione di una crescita economica senza freni e di un dinamismo «geo-demografico» senza precedenti, ben presto utilizzerà la capitalizzazione economica per alimentare le proprie ambizioni strategiche sull'Asia Maior, nuova frontiera delle relazioni internazionali.
Ma a giocare un ruolo da protagonisti ci sono anche l'India, la più popolosa democrazia del mondo, laboratorio della nuova middle class globale, dell'innovazione tecnologica e dell'alta tecnologia. Così come il Brasile, il prossimo gigante energetico che sta affermandosi attraverso il dinamismo della sua società e una politica energetica fondata sul futuro dei biocarburanti".

giovedì 30 ottobre 2008

Il Dream Team della politica estera USA

Un divertente giochino di Foreign Policy
non ne azzeccheranno uno...

Elezioni USA: intervista a Massimo Teodori

di Andrea Carati e Arturo Varvelli


La crisi finanziaria ha riaperto il dibattito sulla "inevitabilità del declino americano". Il nuovo presidente dovrà essere capace di affrontare questa difficile situazione ridando speranze all'interno del paese e, insieme, offrendosi come guida rinnovata in campo internazionale. Saranno capaci gli USA di vincere questa nuova sfida?

Non credo che il declino americano, troppe volte intravisto dagli osservatori soprattutto europei, sarà in effetti tale, almeno nel giro della prossima amministrazione. Nonostante la crisi finanziaria, e forse economica, nonostante l’Iraq e l’Afghanistan, gli Stati Uniti rimangono il paese all’avanguardia della ricerca, della tecnologia, per parlare del soft power oltre che per l’hard power. Il punto della discontinuità con gli anni di Bush sarà il passaggio ormai annunziato dal mondo unilaterale con una sola superpotenza al mondo multipolare con una variegata costellazione di potenze, grandi e medie. Ma, tra esse, continueranno a spiccare gli Stati Uniti dove continueranno a studiare ed a fare ricerca gran parte delle élite del mondo, comprese quelle di paesi come la Cina e l’India. E questo è un aspetto da non trascurare. Ed è perciò che ancora per qualche tempo l’America vincerà la sfida che ha di fronte.”


Intervista completa sul blog di Marco Minghetti in Nova100 del Sole24Ore.

venerdì 17 ottobre 2008

Gheddafi, dopo la Fiat, salva Unicredit?

Un parallelo storico è facilmente percorribile in questi giorni. Nel 1976 la Libia entrò nel capitale della società del Lingotto proprio nel momento in cui attraversava un periodo di forte crisi. I libici avevano accumulato ingenti capitali dopo che negli anni precedenti le entrate petrolifere libiche erano notevolmente aumentate a causa della crescita dei prezzi del greggio.
Oggi, nuovamente, i libici hanno molti capitali derivanti dalle stesse motivazioni, e ancora una volta danno una mano ad una società italiana che sta attraversando un periodo non facile.
La Libia uscì dal capitale Fiat 10 anni dopo con uno straordinario guadagno, nel frattempo la Fiat stava molto meglio...
Sarà così anche questa volta...? la storia a volte si ripete...

http://www.corriere.it/economia/08_ottobre_17/unicredit_borsa_723a813a-9c1c-11dd-962f-00144f02aabc.shtml

giovedì 16 ottobre 2008

L'Iran nucleare: l'intervista a Mark Fitzpatrick, research fellow dell'IISS di Londra

Il blog di Marco Minghetti all'interno di Nova100-Sole24Ore ha pubblicato la mia intervista a Fitzpatrick di passaggio qui in ISPI.
Ecco il link.

Crisi finanziaria: è il declino dell’egemonia statunitense?

La transizione egemonica: un quadro non più solo teorico?
L’attuale debolezza statunitense appare nella sua complessità se alla crisi finanziaria si aggiungono le difficoltà riscontrate in campo politico (l’Iran, l’intervento russo in Georgia, …) e quelle in campo militare (Afghanistan, Iraq, anche se ora in maniera minore, e, più in generale una valida risposta all’asimmetria del terrorismo). Questi fattori di debolezza relativi ai tre pilastri su cui poggia la potenza USA, quella politica, militare ed economica, sembrano suggerire che il sistema internazionale si trovi di fronte al “crollo della superpotenza americana” e al suo “inesorabile declino”, richiamando alla mente i teorici delle relazioni internazionali che si sono occupati dei cicli dell’egemonia: lo storico Paul Kennedy, che delinea la caduta della superpotenza con l’incapacità di finanziare il proprio ruolo nel mondo con le risorse interne; il politologo Robert Nye che vede annullato anche il ruolo di “potenza soft” capace di esercitare il ruolo egemone tramite l’esportazione di cultura, valori e, soprattutto, modelli economici; il sociologo Robert Gilpin, che identifica i fattori di crisi dell’egemone nella maggior crescita dei costi del mantenimento dello status quo rispetto alla capacità economica di sostenere lo stesso; l’economista Charles Kindleberger che vede la crisi del 1929 come conseguenza dell’incapacità britannica di continuare a svolgere il ruolo di leadership nell’economia e nella finanza mondiali che aveva avuto prima della guerra mondiale.

Le conseguenze della crisi finanziaria nella politica estera statunitense.
Gli Stati Uniti soffrono sia di disavanzo pubblico che di disavanzo commerciale. A questa situazione ora si sono aggiunti ulteriori 700 miliardi di dollari per salvare le grandi banche e altre istituzioni finanziarie private. Probabilmente, secondo la maggior parte degli analisti internazionali, gli Stati Uniti attraverseranno una lunga fase di debolezza economica, che potrà riflettersi sull’influenza americana nel mondo. In un panorama simile è facile dubitare che la futura amministrazione americana continuerà a finanziare le operazioni delle proprie forze armate all’estero nella stessa misura attuale (circa un miliardo di dollari al giorno per l’Iraq). Questa necessità potrebbe spingere all’elaborazione di dottrine più selettive. Allo stesso modo gli investimenti militari e la spesa per gli armamenti potrebbero entrare nei capitoli di spesa da ridurre. Una relativa debolezza degli USA rispetto al passato potrebbe condurre a “vuoti strategici” anche maggiori rispetto a quelli che sono stati percepiti (ad esempio con la crisi del Caucaso) dalle potenze emergenti, Russia e Cina in primo luogo. In una prospettiva di più lungo periodo potrebbero essere proprio queste ad aprire la corse per colmare il vuoto lasciato dagli USA.

Crisi finanziaria e capitalismo: la fine del modello americano?
Nonostante la crisi finanziaria abbia coinvolto tutto il mercato mondiale, compreso quello dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), la causa della crisi è rintracciabile all’interno degli Stati Uniti. Alcuni analisti sono arrivati ad interpretare questa crisi come la “fine del capitalismo” o la “fine della globalizzazione” o anche la “fine del modello americano (o reaganiano)” basato su due concetti: i tagli delle tasse si autofinanziano; i mercati finanziari si autoregolano.
Il motore della crescita economica degli ultimi venti anni sono stati gli Stati Uniti. La globalizzazione ha finito per mascherare i problemi statunitensi: l’acquisto di dollari fuori dagli Usa ha consentito al governo americano di accumulare deficit godendo al tempo stesso di una forte crescita. Sul piano internazionale il “Consenso di Washington” e le istituzioni sotto l’influenza statunitense, come il FMI e la Banca Mondiale, hanno spinto i paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie.

Una nuova governance dell’economia mondiale? Chi la vuole e a chi conviene...
Oggi a mettere in dubbio l’attuale sistema economico-finanziario mondiale non sono più solo paesi con velleità anti-americane come il Venezuela di Chavez, ma ha vedere come inevitabile una riforma strutturale sono anche partner storici come i partner europei. Da molte parti si auspica la nascita di un nuovo sistema finanziario che poggi su valute diversificate e un ordine finanziario che non sia dipendente da quello americano. Pochi giorni fa Medvedev e Sarkozy si sono trovati concordi nella necessità di una “rifondazione del capitalismo finanziario”, hanno bocciato senza appello Banca Mondiale e FMI “sui quali grava un discredito troppo rilevante” e si sono detti favorevoli ad un ingresso dei BRIC nel G8 allargato in un consesso multilaterale da tenersi subito dopo le’elezione del presidente USA.
La crisi sembra poter favorire così le potenze emergenti. Ma neppure potrà essere sottovalutata la capacità di ripresa USA. La Russia, con un calo dei prezzi energetici e una struttura paese poco solida, come sembrano testimoniare le gravi perdite in borsa delle ultime settimane, e la Cina, con una economia molto dipendente dalle entrate derivanti dai mercati americano ed europeo (che saranno in forte rallentamento secondo gli ultimi dati FMI) e poco dalla domanda interna, non sembrano poter sopperire al ruolo di leadership economica statunitense. Anche per queste motivazioni la Cina fin dal primo momento ha sostenuto il piano di intervento dell’amministrazione Bush.
Allora come sostiene Paul Kennedy in questi giorni il declino statunitense potrebbe essere rallentato: “Non so se Obama farà come Filippo II di Spagna, ma a volte per preservare il potere si dovranno scegliere alcune aree di influenza e rinunciare ad altre. Filippo II scelse le sue priorità al massimo del suo potere. E la sua restò una grande lezione per rallentare il declino di una grande potenza”.

Intervista a Radio Radicale

Intervista di Lorenzo Rendi per Radio Radicale sul trattato Italia-Libia del 30 agosto 2008.
link al file audio

Il Trattato Italia-Libia e il nuovo contesto economico libico

Con la firma del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia lo scorso 30 agosto si è formalmente chiuso un contenzioso che si protraeva da decenni con ricadute negative sulle relazioni politiche ed economiche. Facendo leva sulla dipendenza energetica italiana, il leader libico Muammar Gheddafi ha sovente saputo utilizzare come arma negoziale la richiesta all’Italia di risarcimenti per la presenza coloniale. La quantificazione nel Trattato del risarcimento (5 miliardi di dollari da pagarsi in 20 anni) pone le basi per una nuova fase di collaborazione economica tra i due paesi, in un contesto in cui mutamenti significativi della struttura economica libica offrono prospettive incoraggianti.

Pubblicato per l'ISPI
Med Brief completo

Italia e Libia: l'indebolimento del rapporto privilegiato

Luglio 2008 - La completa normalizzazione delle relazioni internazionali della Libia ha avuto inevitabilmente come contraltare l’indebolimento del rapporto privilegiato con l’Italia. Quel nesso di reciproca indispensabilità del passato, basato su una evidente complementarietà economica, sembra essersi affievolito. Infatti, la crescita della domanda mondiale di petrolio rende, a differenza degli scorsi decenni in cui l’isolamento libico giocava un ruolo fondamentale, più facilmente sostituibile il ruolo di primo importatore dell’Italia, grazie al fatto che la Libia dispone ora di nuovi e numerosi partner.
La differenziazione dell’economia e la creazione di un sistema produttivo sostenibile appare una strada inevitabile, e parzialmente già intrapresa da Tripoli. La riforma economica che Gheddafi sembra voler imboccare, si prospetta come una transizione difficile e potenzialmente destabilizzante. L’Italia potrebbe essere rilevante nel delicato passaggio delle riforme svolgendo ancora una volta una funzione stabilizzante della società libica, permettendo al governo di Tripoli di individuare nell’Italia un partner determinante nel processo di trasformazione economica, grazie alle caratteristiche della propria economia legata alla piccola e media impresa.

pubblicato per ISPI
Policy Brief completo