venerdì 31 ottobre 2008

Segnalazioni saggistiche tra l'era post americana e i nuovi imperi

La crisi finanziaria ha scatenato una serie di analisi ed uscite sulla politica internazionale.
Un saggio provocatorio e pieno di dati sorprendenti di Fareed Zakaria, in uscita per i tipi di Rizzoli riporta d'attualità il tema del declino americano. L'autore ha 44 anni, è nato e cresciuto in India, e dirige l'edizione internazionale di 'Newsweek'. Nelle 280 pagine del libro "L'era post americana" (“ The Post-American World”), Zakaria dice: gli Stati Uniti stanno perdendo il predominio sul pianeta, perché la globalizzazione ha funzionato e stanno emergendo tanti nuovi centri di potere dislocati ovunque nel mondo. Gli Usa, dovrebbero prenderne coscienza, per frenare la propria caduta e per limitare i danni per se stessi e per il resto del mondo.

Ma non è l'unica uscita sull'argomento. Paul Kennedy ne ha parlato già alcune settimane fa: "quanto è successo conferma il lento declino statunitense, non la sua caduta. L'America non tornerà più ai livelli di grandezza del 1945, quando era l'unico Paese solido dopo la Seconda guerra mondiale. Il suo declino vede la contemporanea ascesa di altre potenze, come la Cina o l'India. Ma questo non cambierà nell'immediato e in tempi rapidi il suo ruolo di grande potenza".
(http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2008/10/Paul-Kennedy-usa-no-declino.shtml?uuid=b8bae8fe-92fb-11dd-9604-c1919a50b427&DocRulesView=Libero).

Poi Fukuyama: "Il potere e l’influenza dell’America poggiavano non solo sui nostri carri armati e i nostri dollari, ma anche sul fatto che la maggior parte della gente trovava attraente la forma di auto-governo americana e voleva rimodellare la sua società lungo le stesse linee - il «soft power», secondo la definizione del politologo Joseph Nye. E’ difficile sondare quanto questi due tratti caratteristici del «brand» americano siano stati screditati."

Ma anche in Italia c'è chi ha percepito come indispensabile cominciare a pensare ad una ri-definizione della politica mondiale in favore delle potenze emergenti. Gianluca Anzalone (1977), esperto di intelligence e strategia, ha scritto per Marsilio "I nuovi imperi. La mappa geopolitica del XXI secolo (prefazione a cura di Vittorio Emanuele Parsi). "Coloro che avevano profetizzato la fine della storia e della geografia con la caduta del Muro di Berlino devono ripensare le loro teorie sulla base di una impressionante accelerazione delle dinamiche politiche, economiche e sociali che ha caratterizzato quest'ultimo ventennio.
L'elemento territoriale, che gli analisti del villaggio globale volevano relegato agli atlanti del passato, torna ad affermarsi come discriminante nella competizione tra Stati. Una competizione per l'energia, il commercio, le nuove rotte di un mondo che ha fame di crescita e sete di petrolio.
Chi sono gli attori di questa nuova competizione globale? Innanzitutto gli Stati Uniti d'America, ma negli ultimi anni la storia registra il ritorno ad una aggressività geostrategica della Russia, che nell'energia e nella proiezione politica trova due formidabili strumenti di affermazione. La Cina, campione di una crescita economica senza freni e di un dinamismo «geo-demografico» senza precedenti, ben presto utilizzerà la capitalizzazione economica per alimentare le proprie ambizioni strategiche sull'Asia Maior, nuova frontiera delle relazioni internazionali.
Ma a giocare un ruolo da protagonisti ci sono anche l'India, la più popolosa democrazia del mondo, laboratorio della nuova middle class globale, dell'innovazione tecnologica e dell'alta tecnologia. Così come il Brasile, il prossimo gigante energetico che sta affermandosi attraverso il dinamismo della sua società e una politica energetica fondata sul futuro dei biocarburanti".

giovedì 30 ottobre 2008

Il Dream Team della politica estera USA

Un divertente giochino di Foreign Policy
non ne azzeccheranno uno...

Elezioni USA: intervista a Massimo Teodori

di Andrea Carati e Arturo Varvelli


La crisi finanziaria ha riaperto il dibattito sulla "inevitabilità del declino americano". Il nuovo presidente dovrà essere capace di affrontare questa difficile situazione ridando speranze all'interno del paese e, insieme, offrendosi come guida rinnovata in campo internazionale. Saranno capaci gli USA di vincere questa nuova sfida?

Non credo che il declino americano, troppe volte intravisto dagli osservatori soprattutto europei, sarà in effetti tale, almeno nel giro della prossima amministrazione. Nonostante la crisi finanziaria, e forse economica, nonostante l’Iraq e l’Afghanistan, gli Stati Uniti rimangono il paese all’avanguardia della ricerca, della tecnologia, per parlare del soft power oltre che per l’hard power. Il punto della discontinuità con gli anni di Bush sarà il passaggio ormai annunziato dal mondo unilaterale con una sola superpotenza al mondo multipolare con una variegata costellazione di potenze, grandi e medie. Ma, tra esse, continueranno a spiccare gli Stati Uniti dove continueranno a studiare ed a fare ricerca gran parte delle élite del mondo, comprese quelle di paesi come la Cina e l’India. E questo è un aspetto da non trascurare. Ed è perciò che ancora per qualche tempo l’America vincerà la sfida che ha di fronte.”


Intervista completa sul blog di Marco Minghetti in Nova100 del Sole24Ore.

venerdì 17 ottobre 2008

Gheddafi, dopo la Fiat, salva Unicredit?

Un parallelo storico è facilmente percorribile in questi giorni. Nel 1976 la Libia entrò nel capitale della società del Lingotto proprio nel momento in cui attraversava un periodo di forte crisi. I libici avevano accumulato ingenti capitali dopo che negli anni precedenti le entrate petrolifere libiche erano notevolmente aumentate a causa della crescita dei prezzi del greggio.
Oggi, nuovamente, i libici hanno molti capitali derivanti dalle stesse motivazioni, e ancora una volta danno una mano ad una società italiana che sta attraversando un periodo non facile.
La Libia uscì dal capitale Fiat 10 anni dopo con uno straordinario guadagno, nel frattempo la Fiat stava molto meglio...
Sarà così anche questa volta...? la storia a volte si ripete...

http://www.corriere.it/economia/08_ottobre_17/unicredit_borsa_723a813a-9c1c-11dd-962f-00144f02aabc.shtml

giovedì 16 ottobre 2008

L'Iran nucleare: l'intervista a Mark Fitzpatrick, research fellow dell'IISS di Londra

Il blog di Marco Minghetti all'interno di Nova100-Sole24Ore ha pubblicato la mia intervista a Fitzpatrick di passaggio qui in ISPI.
Ecco il link.

Crisi finanziaria: è il declino dell’egemonia statunitense?

La transizione egemonica: un quadro non più solo teorico?
L’attuale debolezza statunitense appare nella sua complessità se alla crisi finanziaria si aggiungono le difficoltà riscontrate in campo politico (l’Iran, l’intervento russo in Georgia, …) e quelle in campo militare (Afghanistan, Iraq, anche se ora in maniera minore, e, più in generale una valida risposta all’asimmetria del terrorismo). Questi fattori di debolezza relativi ai tre pilastri su cui poggia la potenza USA, quella politica, militare ed economica, sembrano suggerire che il sistema internazionale si trovi di fronte al “crollo della superpotenza americana” e al suo “inesorabile declino”, richiamando alla mente i teorici delle relazioni internazionali che si sono occupati dei cicli dell’egemonia: lo storico Paul Kennedy, che delinea la caduta della superpotenza con l’incapacità di finanziare il proprio ruolo nel mondo con le risorse interne; il politologo Robert Nye che vede annullato anche il ruolo di “potenza soft” capace di esercitare il ruolo egemone tramite l’esportazione di cultura, valori e, soprattutto, modelli economici; il sociologo Robert Gilpin, che identifica i fattori di crisi dell’egemone nella maggior crescita dei costi del mantenimento dello status quo rispetto alla capacità economica di sostenere lo stesso; l’economista Charles Kindleberger che vede la crisi del 1929 come conseguenza dell’incapacità britannica di continuare a svolgere il ruolo di leadership nell’economia e nella finanza mondiali che aveva avuto prima della guerra mondiale.

Le conseguenze della crisi finanziaria nella politica estera statunitense.
Gli Stati Uniti soffrono sia di disavanzo pubblico che di disavanzo commerciale. A questa situazione ora si sono aggiunti ulteriori 700 miliardi di dollari per salvare le grandi banche e altre istituzioni finanziarie private. Probabilmente, secondo la maggior parte degli analisti internazionali, gli Stati Uniti attraverseranno una lunga fase di debolezza economica, che potrà riflettersi sull’influenza americana nel mondo. In un panorama simile è facile dubitare che la futura amministrazione americana continuerà a finanziare le operazioni delle proprie forze armate all’estero nella stessa misura attuale (circa un miliardo di dollari al giorno per l’Iraq). Questa necessità potrebbe spingere all’elaborazione di dottrine più selettive. Allo stesso modo gli investimenti militari e la spesa per gli armamenti potrebbero entrare nei capitoli di spesa da ridurre. Una relativa debolezza degli USA rispetto al passato potrebbe condurre a “vuoti strategici” anche maggiori rispetto a quelli che sono stati percepiti (ad esempio con la crisi del Caucaso) dalle potenze emergenti, Russia e Cina in primo luogo. In una prospettiva di più lungo periodo potrebbero essere proprio queste ad aprire la corse per colmare il vuoto lasciato dagli USA.

Crisi finanziaria e capitalismo: la fine del modello americano?
Nonostante la crisi finanziaria abbia coinvolto tutto il mercato mondiale, compreso quello dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), la causa della crisi è rintracciabile all’interno degli Stati Uniti. Alcuni analisti sono arrivati ad interpretare questa crisi come la “fine del capitalismo” o la “fine della globalizzazione” o anche la “fine del modello americano (o reaganiano)” basato su due concetti: i tagli delle tasse si autofinanziano; i mercati finanziari si autoregolano.
Il motore della crescita economica degli ultimi venti anni sono stati gli Stati Uniti. La globalizzazione ha finito per mascherare i problemi statunitensi: l’acquisto di dollari fuori dagli Usa ha consentito al governo americano di accumulare deficit godendo al tempo stesso di una forte crescita. Sul piano internazionale il “Consenso di Washington” e le istituzioni sotto l’influenza statunitense, come il FMI e la Banca Mondiale, hanno spinto i paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie.

Una nuova governance dell’economia mondiale? Chi la vuole e a chi conviene...
Oggi a mettere in dubbio l’attuale sistema economico-finanziario mondiale non sono più solo paesi con velleità anti-americane come il Venezuela di Chavez, ma ha vedere come inevitabile una riforma strutturale sono anche partner storici come i partner europei. Da molte parti si auspica la nascita di un nuovo sistema finanziario che poggi su valute diversificate e un ordine finanziario che non sia dipendente da quello americano. Pochi giorni fa Medvedev e Sarkozy si sono trovati concordi nella necessità di una “rifondazione del capitalismo finanziario”, hanno bocciato senza appello Banca Mondiale e FMI “sui quali grava un discredito troppo rilevante” e si sono detti favorevoli ad un ingresso dei BRIC nel G8 allargato in un consesso multilaterale da tenersi subito dopo le’elezione del presidente USA.
La crisi sembra poter favorire così le potenze emergenti. Ma neppure potrà essere sottovalutata la capacità di ripresa USA. La Russia, con un calo dei prezzi energetici e una struttura paese poco solida, come sembrano testimoniare le gravi perdite in borsa delle ultime settimane, e la Cina, con una economia molto dipendente dalle entrate derivanti dai mercati americano ed europeo (che saranno in forte rallentamento secondo gli ultimi dati FMI) e poco dalla domanda interna, non sembrano poter sopperire al ruolo di leadership economica statunitense. Anche per queste motivazioni la Cina fin dal primo momento ha sostenuto il piano di intervento dell’amministrazione Bush.
Allora come sostiene Paul Kennedy in questi giorni il declino statunitense potrebbe essere rallentato: “Non so se Obama farà come Filippo II di Spagna, ma a volte per preservare il potere si dovranno scegliere alcune aree di influenza e rinunciare ad altre. Filippo II scelse le sue priorità al massimo del suo potere. E la sua restò una grande lezione per rallentare il declino di una grande potenza”.

Intervista a Radio Radicale

Intervista di Lorenzo Rendi per Radio Radicale sul trattato Italia-Libia del 30 agosto 2008.
link al file audio

Il Trattato Italia-Libia e il nuovo contesto economico libico

Con la firma del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia lo scorso 30 agosto si è formalmente chiuso un contenzioso che si protraeva da decenni con ricadute negative sulle relazioni politiche ed economiche. Facendo leva sulla dipendenza energetica italiana, il leader libico Muammar Gheddafi ha sovente saputo utilizzare come arma negoziale la richiesta all’Italia di risarcimenti per la presenza coloniale. La quantificazione nel Trattato del risarcimento (5 miliardi di dollari da pagarsi in 20 anni) pone le basi per una nuova fase di collaborazione economica tra i due paesi, in un contesto in cui mutamenti significativi della struttura economica libica offrono prospettive incoraggianti.

Pubblicato per l'ISPI
Med Brief completo

Italia e Libia: l'indebolimento del rapporto privilegiato

Luglio 2008 - La completa normalizzazione delle relazioni internazionali della Libia ha avuto inevitabilmente come contraltare l’indebolimento del rapporto privilegiato con l’Italia. Quel nesso di reciproca indispensabilità del passato, basato su una evidente complementarietà economica, sembra essersi affievolito. Infatti, la crescita della domanda mondiale di petrolio rende, a differenza degli scorsi decenni in cui l’isolamento libico giocava un ruolo fondamentale, più facilmente sostituibile il ruolo di primo importatore dell’Italia, grazie al fatto che la Libia dispone ora di nuovi e numerosi partner.
La differenziazione dell’economia e la creazione di un sistema produttivo sostenibile appare una strada inevitabile, e parzialmente già intrapresa da Tripoli. La riforma economica che Gheddafi sembra voler imboccare, si prospetta come una transizione difficile e potenzialmente destabilizzante. L’Italia potrebbe essere rilevante nel delicato passaggio delle riforme svolgendo ancora una volta una funzione stabilizzante della società libica, permettendo al governo di Tripoli di individuare nell’Italia un partner determinante nel processo di trasformazione economica, grazie alle caratteristiche della propria economia legata alla piccola e media impresa.

pubblicato per ISPI
Policy Brief completo