giovedì 30 luglio 2009

mercoledì 22 luglio 2009

Gheddafi e l’Unione africana: legittimità internazionale, influenza regionale e sviluppo interno

ISPI Policy Brief

Abstract: The second visit to Italy by Muammar Gheddafi this year has been in his capacity as Chairman of the African Union.
After many years of Pan-African rhetoric and inter-African activism, the Libyan leader is at the head of the continental organisation and is in a position to both steer the organisation towards his origi-nal dreams and to reap the benefit in terms of international legitimisation, regional influ-ence and internal development.


Il ritorno di Muammar Ghed-dafi in Italia per il vertice G8 tenutosi a L’Aquila come rap-presentante dell’Unione afri-cana, ha riportato l’attenzione verso il ruolo della Libia nel continente. Sin dal suo arrivo al potere, con il colpo di stato compiuto quasi quarant’anni fa, il 1° settembre 1969, il leader libico ha visto l’Africa come possibile area geopoliti-ca di propria influenza. Oggi, la Libia dimostra ancor mag-giore, interesse verso il conti-nente.
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giovedì 16 luglio 2009

La svolta "africana" di Gheddafi riavvicina la Libia all'Occidente

Varvelli su L'Occidentale

All’ambizioso progetto dell’unità araba Gheddafi ha ormai rinunciato. Nei suoi 40 anni di potere sono stati numerosi e svariati i tentativi falliti di federare la Libia: prima con Egitto e Sudan nel 1970, di nuovo con l’Egitto nel 1973, poi con la Tunisia nel 1974. Nei dieci anni successivi furono intrapresi analoghi tentativi nei confronti della Tunisia, del Ciad, del Marocco, della Siria, dell’Algeria e del Sudan. Tutti falliti. Il centro dell’interesse di Gheddafi è ora l’Africa e l’Unità africana, l’organizzazione nata tra il 1999 e il 2003 di cui è uno dei principali promotori.

Come suo rappresentante si è presentato all’ultimo G8 italiano, è stato ricevuto da Berlusconi, si è seduto al tavolo dei grandi e ha stretto la mano ad Obama. Come “re dei re” africani pochi giorni prima aveva rilanciato la creazione degli “Stati Uniti d’Africa”.

continua...

martedì 7 luglio 2009

Sergio Romano su "L'Italia e l'ascesa di Gheddafi"


Lettere al Corriere

IL PETROLIO LIBICO E L’ITALIA DALLE PAROLE AI FATTI

Sono uno studente
universitario di economia, e molto interessato al rapporto storico Eni-Libia. Può aiutarmi a inquadrare il problema?
Andrea Rossato

Caro Rossato, Sulla questione del petrolio
libico negli anni che precedettero e seguirono la Seconda guerra mondiale esiste anzitutto il libro molto interessante di Giuseppe Buccianti («Libia: petrolio e indipendenza») pubblicato qualche anno fa dall’editore Giuffré permette di comprendere meglio gli sviluppi di una vicenda che comincia con gli accordi conclusi dall’Eni nell’ultima fase della monarchia di re Idris per lo sfruttamento di due importanti giacimenti.
Il colpo di Stato militare del 1969, l’avvento al potere di Muammar Gheddafi e la cacciata degli italiani dal Paese nei mesi seguenti sembrarono segnare la fine degli ambiziosi progetti concepiti dall’Italia per la riconquista economica della Libia. Ma nel giro di un anno la situazione cominciò a migliorare. In un libro recente («L’Italia e l’ascesa di Gheddafi», Baldini Castoldi Dalai ed.) Arturo Varvelli ricorda che i tecnici e i dirigenti italiani si erano ridotti a qualche decina nel 1970, ma divennero 1530 nel 1972 e 5200 nel 1974. Dietro le affermazioni demagogiche della dirigenza libica vi era la convinzione che l’Italia fosse, per ragioni storiche e geografiche, il partner più utile e naturale.
Molti contatti furono ristabiliti spontaneamente, alla spicciolata.
Ma il problema dell’Eni era più complicato. Il nuovo regime non intendeva riconoscere gli accordi stipulati dal governo del re con le società petrolifere straniere e sembrava deciso a rivendicare il controllo dell’intero settore.
Uno dei temi in discussione era la percentuale della presenza libica nella impresa congiunta che si sarebbe costituita fra l’Eni e la Lnoc (Libyan National Oil Corporation). Il 51%, come richiesto dai negoziatori di Tripoli? O il 50%, come desiderato dall’Eni? E ancora: come sarebbero state ripartite le spese che l’Eni aveva già sostenuto per lo sfruttamento dei due giacimenti?
A quale prezzo l’Eni avrebbe potuto comprare la quota di petrolio spettante alla Libia?
Al prezzo del mercato, come voleva l’Eni, o a un prezzo maggiorato come chiedevano i libici?
La questione si complicò ulteriormente quando i libici fecero capire che l’affare sarebbe andato in porto soltanto se l’Italia avesse accettato di fornire armi che erano in buona parte fabbricate da noi su licenza americana.
Cominciò così una partita a tre in cui l’Italia dovette negoziare su due fronti: con i libici per convincerli a moderare le loro richieste, con gli americani per indurli ad autorizzare l’esportazione di materiale bellico.
Secondo Varvelli la persona che ebbe in questa fase un ruolo decisivo fu Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio.
Fu Andreotti che, scavalcando il ministro degli Esteri (Aldo Moro), fece pressioni su Washington. I suoi argomenti furono soprattutto due. In primo luogo sostenne che le armi, se l’Italia non fosse stata autorizzata a venderle, sarebbero giunte in Libia dal blocco sovietico e avrebbero rafforzato i rapporti di Gheddafi con l’Urss. In secondo luogo lasciò intendere che l’accordo sul petrolio si sarebbe fatto a condizioni sfavorevoli per l’Eni e avrebbe rappresentato un brutto precedente per le imprese straniere che erano in lista d’attesa. L’azione ebbe successo, l’accordo venne firmato il 30 settembre 1972 e dette soddisfazione a quasi tutte le richieste dell’Eni. Fu probabilmente il migliore accordo stipulato in quegli anni da un’azienda straniera con il regime di Gheddafi.

"Perchè la Libia vuole entrare in Finmeccanica. Il precedente della Liatec" Varvelli su Il Riformista

Perchè la Libia vuole entrare in Finmeccanica. Il precedente della Liatec
Riformista del 7 luglio 2009

Non lo fanno per dare una mano all’economia italiana, ma hanno precisi interessi di sviluppo e crescita. Le recenti attenzioni nei confronti di aziende italiane dei libici, verso Finmeccanica, e dei cinesi, con l’accordo di joint venture con la FIAT reso pubblico ieri, nascondono il desiderio di mettere mano a tecnologie di difficile reperibilità per paesi poveri di know-how capace di far compiere alle rispettive economie un salto di qualità che si rende sempre più necessario.
Le motivazioni che stanno dietro alle operazioni libiche sono essenzialmente economiche: una di natura più contingente, l’altra più strategica e legata allo sviluppo futuro. Dal primo punto di vista, quello strettamente finanziario, come nel caso di Finmeccanica o dell’ENI, le azioni delle società italiane, dopo il collasso dei mercati seguente alla crisi mondiale, costituiscono certamente un buon investimento per chi disponga di liquidità, mentre per il governo italiano sono una sorta di piano di salvataggio o rafforzamento nel quale però non sborsa un euro. Dal punto di vista libico, i fondi alimentati dalla rendita petrolifera vengono impiegati principalmente per ridurre l’impatto della volatilità delle entrate petrolifere (i prezzi del greggio sono da sempre soggetti a sbalzi) ma anche per garantire alle generazioni future gli stessi potenziali di crescita attuali: la rendita da capitale dovrebbe progressivamente sostituire la rendita petrolifera man mano che si esauriranno le riserve di idrocarburi, momento comunque, tutt’altro che vicino.
Ma esiste anche una seconda motivazione, più strategica. Osservando i settori di interesse dei fondi libici - quello energetico, quello dell’alta tecnologia, quello bancario, e quello delle infrastrutture - si può constatare come la finalità sia non solo quella di investire allo scopo di massimizzare i rendimenti entro certi margini di rischio, ma anche ottenere partecipazioni in settori potenzialmente strategici per lo sviluppo libico. Essere azionisti in società che operano in questi settori è una garanzia rispetto agli investimenti italiani in Libia in quelle aree strategiche che sono essenziali nel processo di riforma economica avviato dal regime libico negli ultimi anni. Gli investimenti libici in Italia si inseriscono in una strategia più ampia, della quale costituiscono solamente una parte, orientata all’ottenimento del know-how necessario allo sviluppo dell’economia libica.
In realtà questa partnership si basa su una proposta italiana nata già negli anni Settanta, quando l’Italia soffriva della crisi energetica. L’offerta dei governanti di allora (Moro e Andreotti su tutti) ai governi arabi era chiara: uno scambio “tecnologia per petrolio”. Ma allora le condizioni non erano mature e gli arabi erano impegnati a cercare di ottenere dal rapporto con l’Europa e l’Occidente immediati vantaggi economici (facendo salire il prezzo del petrolio) o concessioni politiche, principalmente sulla questione israelo-palestinese. Oggi paiono più lungimiranti. Figli di una educazione ricevuta nelle università americane o europee, le classi dirigenti mediorientali prestano attenzione al loro sviluppo futuro e quindi a quelle tecnologie senza le quali sembra impossibile passare da un’economia di rendita ad una maggiormente differenziata e più moderna.
Per Finmeccanica si tratta di consolidare le relazioni con un partner con cui sono già state firmate importanti trattative nei settori dell’elicotteristica, della sicurezza e dei trasporti, quest’ultimo attraverso l’Ansaldo. Già esiste una collaborazione che nel 2010 produrrà i primi risultati: un impianto di assemblaggio e manutenzione della Liatec (Libyan Italian Advanced Technology Company), la joint venture paritetica costituita nel 2007 con Agusta Westland, proprietà di Finmeccanica. Infine, nel trattato di amicizia tra i due paesi si prevede un ruolo di primo piano dell’Italia per il controllo dei confini a sud del paese. I satelliti “made in Italy” sono pronti a guidare gli uomini del Colonnello per fermare l’immigrazione clandestina, una minaccia anche per il suo regime.
Come si è visto nel caso FIAT-Chrysler il know-how è una risorsa vitale. I cinesi se ne sono accorti. Marchionne ha siglato con i vertici della cinese Gac, Guangzhou automotive company, un’intesa per la costituzione di una joint venture industriale con l’obbiettivo di produrre motori e auto Fiat per il mercato cinese con l’avvio della produzione nella seconda metà del 2011. Con differenti obiettivi strategici, ma con l’intento d’acquisizione di competenze e tecnologie si sta quindi muovendo anche la Cina. Non è una coincidenza che con la visita in corso del presidente cinese Hu Jintao in Italia, il governo di Pechino abbia anche cominciato a pensare ad investimenti finanziari direttamente in Italia, essenzialmente di beni strumentali, e in particolare nei settori dell’energia rinnovabile e della tecnologia nucleare. La Cina ha iniziato a fare shopping in Europa già da tempo con l’obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale con il vecchio continente che è sbilanciata troppo a favore dei cinesi. Interesse che potrebbe anche trasformarsi a breve nella partecipazione del fondo sovrano cinese a una grande compagnia italiana, ad esempio in Enel, ma anche in diverse PMI, in particolare nel tessile e nella meccanica, settori di tradizionale sviluppo cinese.
I dubbi sul fatto che queste partecipazioni ci rendano più sicuri perché tutti più interconnessi e globalizzati o, invece, più insicuri e sottoposti ad una costante perdita di sovranità su alcuni fondamentali settori strategici, rimangono. Le paure legate alla possibilità di OPA ostili lanciate da fondi sovrani avevano portato il governo ad approvare a dicembre una norma volta a rafforzare gli amministratori in caso di offerta d’acquisto. Si era anche parlato di un comitato congiunto esteri-tesoro a cui sarebbe spettata una valutazione precauzionale degli investimenti dei fondi sovrani in Italia, ma non si sa che fine abbia fatto. Nel frattempo, nonostante tutto, la tecnologia italiana rimane ricercata sui mercati internazionali.

Varvelli su Formiche del mese di luglio



Gheddafi: sarà vera svolta?


Quarant’anni dopo la sua nascita il regime libico di Muammar Gheddafi appare stabile e forte come non lo è mai stato. Dopo la revoca delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite e dagli Stati Uniti e il completo ripristino delle relazioni diplomatiche libico-americane, il paese appartiene a pieno titolo alla comunità internazionale. A cominciare dal 2004 gli incontri del Leader, come preferisce essere chiamato dopo che nel 1973 ha rinunciato a qualsiasi carica formale, con i rappresentanti occidentali sono stati numerosi: Prodi, Blair, Berlusconi, Aznar, Sarkozy, Rice e molti altri. A questi si aggiungono le due visite storiche di giugno e luglio in Italia, primi viaggi di Gheddafi compiuti nel nostro paese, resi possibili solo dopo la firma del Trattato di amicizia tra i due paesi concluso a Bengasi il 30 agosto 2008.
Proprio questa normalizzazione delle relazioni internazionali e il nuovo legame con l’Occidente hanno permesso al regime di rafforzarsi, facendo eclissare ogni possibilità di “regime change” guidato dall’esterno e consentendo il rilancio della propria industria petrolifera, dalle cui entrate dipende sostanzialmente il mantenimento del potere di Gheddafi. Come nelle più classiche economie del Golfo, il regime, grazie ai proventi del petrolio e del gas, può distribuire la rendita alla popolazione attraverso la creazione di posti di lavoro pubblici, una politica dei prezzi controllata dallo Stato e un sistema di sussidi ai beni di prima necessità capace di fornire gratuitamente al cittadino libico tutti i servizi essenziali: scuole, ospedali e molte abitazioni. Il consenso e l’aiuto degli europei e degli occidentali è oggi richiesto proprio per il know-how necessario per il mantenimento della capacità libica sia di estrarre il petrolio che fornisce la rendita, sia di attuare il processo di distribuzione della stessa, che avviene grazie alla realizzazione occidentale, e soprattutto italiana, di molte opere civili e alla importazione di beni primari e prodotti finiti.
L’obbiettivo di Gheddafi rimane quello della conservazione del potere e oggi ciò può essere ottenuto solamente con una crescita economica che gli permetta ancora una volta di accreditarsi come “guida” del suo popolo. L’anelito rivoluzionario verso una società diversa, come auspicata nel Libro Verde da lui scritto, non è fine a se stesso. Anzi, dopo la rinuncia al “nemico esterno”, identificato a seconda delle circostanze nell’Italia colonialista o nell’America imperialista, esso è rimasto come fonte principale di legittimità del regime in un paese che, prima dell’arrivo di Gheddafi, era pressoché privo di una identità nazionale definita.
L’ammodernamento delle infrastrutture, le moderate aperture verso il mercato e il libero commercio degli ultimi anni hanno lo scopo di cominciare a dar vita ad una piccola e media industria che consenta di affrontare uno straordinario incremento demografico e le conseguenze da esso creato, prima fra tutte un’elevata disoccupazione giovanile. Grazie al fatto che l’economia libica negli ultimi anni ha goduto di buona salute, soprattutto per merito degli elevati prezzi petroliferi, il regime di Tripoli ha potuto avviare una progressiva privatizzazione dell’economia. Dal punto di vista politico la svolta moderata della Libia ha offerto le garanzie necessarie ai paesi e alle imprese straniere per operare con maggior convinzione nel paese. Tripoli, pur nelle incoerenze del regime, è dunque avviata sulla strada di una graduale e prudente riforma, che, minimizzando i rischi di destabilizzazione, possa attirare gli investimenti esteri fuori dal settore degli idrocarburi e diversificare l’economia.
Sul fronte interno il consenso sul principio dell’apertura economica pare non abbia grandi oppositori nonostante una sempre più crescente divisione tra le due anime della dirigenza libica: una riformista vera fautrice di una transizione in senso più occidentale e propositrice anche di riforme politiche che includano la revisione delle strutture del paese, anche nel senso della creazione di una costituzione che garantisca al cittadino libico doveri ma, soprattutto, diritti; e una vecchia guardia più attenta alle questioni interne, ad una ridistribuzione diretta al popolo dei proventi del petrolio, alla eliminazione di alcune strutture amministrative, e maggiormente resistente alla liberalizzazione dell’economia e più critica al riavvicinamento con l’Occidente, reputato troppo rapido.
Il dosaggio di tempi e modi dell’apertura spetta naturalmente a Gheddafi. Il risultato è che la politica economica libica rimane disarticolata e solo negli ultimi anni ha dimostrato una preoccupazione per lo sviluppo post-petrolifero. Le preoccupazioni del Colonnello sono essenzialmente di carattere sociale. I mercati, come indica il caso libico, non esistono in un vuoto amministrativo, sociale e istituzionale. Per creare mercati interni competitivi non è sufficiente eliminare quelle parti della burocrazia che controllano e regolano il flusso di beni e servizi, come è stato fatto con il tentativo di eliminare i ministeri. Lo stato deve attivamente dispiegare e creare gli strumenti a sua disposizione per portare a termine i difficili compiti di amministrazione e di regolazione indiretta per definire i diritti di proprietà, per fare osservare i contratti, tagliare i costi di transazione e, infine, promuovere una concorrenza reale. Intraprendere quindi il percorso della riforma economica significa, seppur progressivamente, mettere in discussione quel contratto sociale tra il regime e i cittadini basato sulla distribuzione della rendita proprio perché questa viene notevolmente riorientata. Questa, quindi, la preoccupazione principale di Gheddafi: quella di perdere la sua funzione principale di distributore di ricchezza. Riguardo a ciò vanno presi in considerazione due dati: l’80% circa della popolazione è nata e vissuta sotto il regime di Gheddafi e non conosce quindi sistema diverso da quello della Jamahiriya, lo Stato delle Masse; quest’ultimo ha comunque garantito condizioni di sviluppo sociale di testa tra i paesi dell’Africa del Nord con un 56esimo posto a livello mondiale secondo l’indice di sviluppo umano dell’Undp.
Alcuni fattori macroeconomici testimoniano il percorso intrapreso dalla Libia: buoni tassi di crescita degli ultimi anni, con un ruolo dominante del settore non petrolifero; elevate entrate petrolifere (esportazioni per più di 51 miliardi di dollari nel 2008 rispetto ai 10 miliardi del 2002) e connesse ingenti riserve valutarie. Alcuni importanti progressi in tema di riforme strutturali sono stati compiuti nel corso degli ultimi anni. Un buon numero di imprese pubbliche sono state privatizzate con la riduzione di un terzo dei dipendenti pubblici. Importanti banche sono state privatizzate e anche le banche italiane, nazionalizzate negli anni Settanta, stanno tornando in Libia. Nel 2007 la creazione del fondo sovrano Libyan Investment Authority ha accresciuto la trasparenza della gestione delle entrate petrolifere e sono cominciati i grandi investimenti in aziende occidentali, soprattutto in Italia (Eni, Enel e Unicredit le più importanti).
Osservando i settori di interesse dei fondi libici - quello energetico, bancario, finanziario e delle infrastrutture - si può constatare come la finalità sia quella di investire allo scopo di massimizzare i rendimenti, ma anche di ottenere partecipazioni in settori potenzialmente strategici per lo sviluppo libico. I fondi alimentati dalla rendita petrolifera vengono infatti impiegati principalmente per ridurre l’impatto della volatilità delle entrate petrolifere ma anche per garantire alle generazioni future gli stessi potenziali di crescita attuali: la rendita da capitale dovrebbe progressivamente sostituire la rendita petrolifera via via che si esauriranno le riserve di idrocarburi. Allo stesso tempo, essere azionisti in società che operano in questi settori è una garanzia rispetto agli investimenti italiani in Libia in quelle aree strategiche che sono essenziali nel processo di riforma economica.
Naturalmente questa trasformazione non può prescindere da un forte legame con i paesi più sviluppati. E questa è probabilmente, insieme al pericolo islamico interno, la motivazione principale che ha spinto Gheddafi nell’ultimo decennio alla svolta moderata, alle parziali ammissioni di colpa sugli attentati terroristici ed alle aperture agli Stati Uniti. Perché questo passaggio abbia pieno successo la Libia ha bisogno della comunità internazionale, dell’Europa e dell’Italia.