domenica 28 dicembre 2008

Samuel Huntington: ma chi l'ha letto "The Clash of Civilization"?

E' morto uno dei politologi che hanno maggiormente segnato il dibattito post guerra fredda. Tuttavia, leggendo e ascoltando i media italiani, mi è sempre sembrato che tutti ne parlassero senza nemmeno averlo letto, fraintendendo la sua analisi (con una evidente capacità di previsione) con il suo auspicio. Samuel Huntington aveva semplicemente identificato nei fattori culturali, religiosi ed etnici (anzichè ideologici) i nuovi paradigmi su cui si sarebbero identificati e, probabilmente, divisi gli attori internazionali dopo la caduta del comunismo. Samuel Huntington non auspicava lo scontro, piuttosto riteneva che si sarebbe quasi inevitabilmente verificato... ma per capirlo bisognava leggerlo The Clash of Civilization...

Vittorio da Rold spiega bene sul Sole:
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2008/12/tramonto-ideologie-decadenza-Occidente.shtml?uuid=ba700836-d500-11dd-9138-0656feb089b0&DocRulesView=Libero

Geminello Alvi (un grande) pensa invece che il libro non lo avessero capito... io continuo a pensare che non lo avessero letto:
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=317200&START=1&2col=

martedì 9 dicembre 2008

L'America di Obama oltre al declino affronterà il declinismo

di Arturo Varvelli - Articolo pubblicato da Il Riformista, 7 dicembre 2008


Il declino statunitense è raccontato, annunciato e previsto, da storici, politologi ed economisti da almeno tre decenni. Il tema è di attualità dagli anni Settanta, quando il mondo affrontava le prime manifestazioni della crisi internazionale che seguì la fine del sistema di Bretton Woods e la sconfitta degli Stati Uniti nel Vietnam. I politologi erano preoccupati che si ripetesse la crisi e la grande depressione degli anni Trenta, per mancanza di una leadership mondiale. Per gli Stati Uniti sembrava allora molto difficile mantenere il proprio margine competitivo sui rivali - l’Europa e il Giappone - mentre i costi crescenti del contenimento dell’URSS trasformarono gli USA, a partire dagli anni Ottanta, nella nazione più indebitata del mondo.
Oggi la crisi finanziaria ed economica ha riproposto il tema: che il declino egemonico non sia solamente un quadro teorico? La congiuntura attuale e le debolezze statunitensi sembrano suggerire che il sistema internazionale si trovi di fronte a quella che molti osservatori internazionali hanno descritto come il “crollo della superpotenza americana” o il suo “inesorabile declino”, richiamando alla mente proprio i teorici delle relazioni internazionali che si sono occupati dei cicli dell’egemonia.
Rileggere oggi lo storico Paul Kennedy, che delinea la caduta della superpotenza con l’incapacità di finanziare il proprio ruolo nel mondo con le risorse interne, non appare un semplice esercizio di applicazione teorica alla realtà. Dal 1500 a oggi, questo è l'arco di tempo preso in esame da Kennedy, questa legge è sempre stata rispettata. Pur con approcci differenti, altri studiosi forniscono letture simili. Il sociologo Robert Gilpin identifica i fattori di crisi dell’egemone nella maggior crescita dei costi del mantenimento dello status quo rispetto alla capacità economica di sostenere lo stesso. Per l’egemone è impossibile conservare nel lungo periodo il monopolio delle capacità tecnologiche ed economiche all’origine del proprio successo poiché divengono patrimonio condiviso degli altri stati che finiscono per diventare suoi rivali. Inoltre le aspettative dei cittadini, che rifiutano di continuare a sopportare i sacrifici necessari, sempre maggiori, per preservare il ruolo egemonico, spingono affinché vengano privilegiati i consumi interni, nella logica “più burro e meno cannoni”. Anche dal lavoro dell’economista Charles Kindleberger si può trarre un monito per gli Stati Uniti di oggi e un paragone implicito. Egli vede la crisi del 1929 come conseguenza dell’incapacità britannica di continuare a svolgere il ruolo di leadership nell’economia e nella finanza internazionale che aveva avuto prima della guerra mondiale.
Curiosità del destino, le teorie egemoniche, frutto delle percezioni di debolezza degli Stati Uniti negli anni Settanta, trovarono massimo sviluppo e risalto nel decennio successivo, proprio mentre la potenza americana anziché ridimensionare il proprio ruolo si accingeva a vincere la guerra fredda sconfiggendo quello che era stato il nemico per più di quarant’anni: una Unione Sovietica che, lei sì, collassava su se stessa.
Secondo la maggior parte degli analisti internazionali, compresi quelli del National Intelligence Council del governo americano, la crisi finanziaria ed economica potrà riflettersi sull’influenza statunitense nel mondo. Ciò potrebbe spingere all’elaborazione di dottrine più selettive e ad un maggior coinvolgimento dei partner in una prospettiva maggiormente multilaterale, come le prime dichiarazioni del Presidente eletto Obama fanno presumere. L’egemone infatti non ha molte alternative per venire fuori da questa situazione. Può cercare di capovolgere il trend interno o ridurre il livello del proprio impegno internazionale e promuovere alleanze strategiche con altri stati, come in realtà fece la Gran Bretagna negli anni Trenta, principalmente verso gli Stati Uniti, di fronte al declino del proprio sistema imperiale. Ma anche gli Stati Uniti proprio durante gli anni Settanta fecero uso di questa strategia. La dottrina Nixon può essere interpretata come uno sforzo degli USA per sganciarsi da impegni difficili da mantenere e far gravare parte del peso della difesa dello status quo internazionale su altri paesi. L’avvicinamento americano alla Cina comunista fu un esempio. In cambio di una riduzione degli impegni americani nei confronti di Taiwan, gli americani chiesero la collaborazione cinese per contenere la potenza in espansione dell’Unione Sovietica.
A quale punto della parabola del declino siano oggi gli Stati Uniti e se esso sia veramente così prossimo e inevitabile non è quindi così facile a dirsi. Le società possono rigenerarsi e, in effetti, come scritto da Gilpin, lo hanno fatto: la Cina imperiale si rinnovò per molti secoli prima di raggiungere “una trappola” prodotta dalla diminuzione dei profitti e dalla stagnazione tecnologica; la Gran Bretagna si è ripresa varie volte nel corso di tre secoli prima di entrare in una fase di declino verso la fine del XIX secolo.
Oggi gli Stati Uniti non controllano più unilateralmente il mondo, tuttavia rimangono pur sempre, e di gran lunga, la maggior potenza politica, economica e militare. La storia può suggerire ancora. Come ha sostenuto proprio Paul Kennedy in questi giorni, il declino statunitense potrebbe essere rallentato: “Non so se Obama farà come Filippo II di Spagna, ma a volte per preservare il potere si dovranno scegliere alcune aree di influenza e rinunciare ad altre. Filippo II scelse le sue priorità al massimo del suo potere. E la sua restò una grande lezione per rallentare il declino di una grande potenza”.