lunedì 24 novembre 2008

Varvelli su Il Riformista

Passo qui il mio articolo sull'Affare Fiat-Libia del 1976 pubblicato domenica 23 novembre su "Il Riformista".


"La storia a volte si ripete. E quando c’è di mezzo il leader libico Muammar Gheddafi si ripete più sovente. Un parallelo storico è facilmente percorribile in queste settimane, dopo l’ingresso di soci libici in Unicredit e l’interesse mostrato dal Fondo Sovrano libico per altre aziende italiane. Nel 1976 la Libia entrò nel capitale della FIAT proprio nel momento in cui attraversava un periodo di forte crisi. Allora come oggi i libici avevano accumulato ingenti capitali dopo che negli anni precedenti le entrate petrolifere libiche erano straordinariamente cresciute per gli alti prezzi del greggio.

Il 1 dicembre del 1976 per la prima volta nella storia mondiale un paese arabo non vicino al mondo occidentale, attraverso la sua banca, la Libyan Arab Foreign Bank, acquistava, a seguito di un corrispettivo aumento di capitale, una percentuale (il 9,5%) di una grande azienda occidentale, entrando nel Consiglio di Amministrazione della FIAT. Agnelli e Romiti, con l’ausilio di Cuccia, avevano agito nel silenzio per 18 mesi senza avvisare il governo ma il solo Andreotti. Quando si erano fatti avanti i finanzieri di Gheddafi, il management del Lingotto non aveva potuto che spalancare loro le porte, visto che versavano, uno sull'altro, ben 415 milioni di dollari, una somma pari a un quarto del passivo dei conti italiani con l'estero di allora. Subito fu chiaro, però, che quell'investimento in petrodollari aveva per Gheddafi un valore politico che andava ben oltre l'interesse finanziario. L’investimento in Fiat era il biglietto da visita con cui legarsi alla grande finanza occidentale proprio in un periodo in cui il regime del Colonnello veniva guardato con sospetto sempre maggiore. Forse fu più opportunismo che strategia, ma le parole di allora di Abdallah Saudi, Presidente della banca libica, potrebbero essere state pronunciate oggi: “La Libia dispone di entrate valutarie superiori ai suoi bisogni interni e cerca occasioni di investimento all’estero in società con altri interessi, naturalmente di paesi amici: quando una buona occasione di investimento ci si presenta, naturalmente la afferriamo”.

L’Avvocato si era preoccupato delle possibili reazioni negative e si era prodigato in assicurazioni che escludevano una diretta partecipazione dei libici alla gestione dell’azienda torinese. C’era voluta molta accortezza per non vedersi piovere addosso critiche. Dopo essere volato a Londra e Parigi a spiegare le clausole e i motivi dell’intesa, Agnelli si era recato a Washinghton per tranquillizzare i principali esponenti dell’amministrazione americana e l’allora capo della CIA Bush padre. Essi temevano che i fiduciari di Gheddafi potessero venire a conoscenza di determinate tecnologie di carattere strategico o militare. Preoccupazioni che si amplificarono quando pochi giorni dopo Agnelli si incontrò con Gheddafi a Mosca. Secondo quanto riferito da Michael Ledeen, allora corrispondente da Roma di “New Repubblic”, e in rapporti con i servizi segreti statunitensi, l’accordo era stato raggiunto sulla base di uno schema triangolare di reciproche convergenze per cui, mentre Agnelli aveva bisogno di ricapitalizzare la Fiat, Gheddafi doveva saldare un grosso debito con il Cremino per l’acquisto di armamenti; e i russi, a loro volta, volevano che la Fiat costruisse una fabbrica di scavatrici per la quale era necessario trovare un finanziamento.

Ma dell’accordo si erano preoccupati per gli stessi motivi anche il governo e servizi segreti italiani. Secondo i documenti dell’archivio storico FIAT il 15 gennaio 1977 il capo del SID, Ammiraglio Mario Casardi, scriveva a Giovanni Agnelli: “Il recente accordo stipulato tra FIAT e Libyan Arab Foreign Bank prevede l’immissione nel Consiglio di Amministrazione di rappresentanti dell’Ente libico. Reputo doveroso rammentarLe che notizie o argomenti classificati in quanto interessanti la difesa e la sicurezza dello Stato non possono essere portati a conoscenza di persone prive di adeguata abilitazione (nulla osta di segretezza) da me rilasciata”. Agnelli tre giorni dopo rassicurava il capo dell’intelligence italiana: “Tengo subito a precisarLe che le materie riservate da Lei richiamate non costituiscono mai oggetto di esame o deliberazioni da parte del nostro Consiglio di Amministrazione. In ogni caso desidero assicurarLa che le disposizioni di sicurezza relative alle materie in questione ci sono ben presenti e che, come per il passato, ci atterremo scrupolosamente alle medesime anche per l’avvenire”.

L’investimento rimase isolato e i consiglieri libici in FIAT, secondo Agnelli, “non pretesero mai nulla”. Certo per i libici fu un successo economico: quando la banca di Tripoli uscì dalla FIAT nel 1986, dopo la crisi dei missili su Lampedusa, portò a casa 10 volte il capitale investito.

La vera novità è che i Gheddafi – a Muammar si è aggiunto Saif al-Islam, il figlio che sembra destinato a ereditare il potere dal padre - questa volta sembrano essere sbarcati in Italia per restarci più a lungo e per un investimento più differenziato e strategico. E ciò sta avvenendo quando, dopo decenni di crescente liberalizzazione, alcuni stati europei adottano un comportamento più difensivo verso la penetrazione dei fondi sovrani. La necessità di proteggere i settori strategici è invocata nella maggior parte dei casi. Come evidente con la creazione Comitato Strategico Esteri-Tesoro, questi settori non si limitano all’industria dell’armamento ma comprendono pure l’energia, le risorse naturali, le infrastrutture e la finanza. Proprio i settori che interessano ai Gheddafi per l’acquisizione del know-how necessario allo sviluppo libico come dimostrato dalle avance ad ENI, Telecom, Impregilo, Terna e Generali. Ma il Leader stavolta si è preparato la strada giusta: l’accordo che ha chiuso il contenzioso con l’Italia, approvato in Consiglio dei Ministri in questi giorni, e la piena riammissione della Libia nella comunità internazionale forniscono quella cornice politica necessaria agli investimenti che negli anni ’70 non era immaginabile poter costruire".

mercoledì 5 novembre 2008