martedì 7 luglio 2009

Varvelli su Formiche del mese di luglio



Gheddafi: sarà vera svolta?


Quarant’anni dopo la sua nascita il regime libico di Muammar Gheddafi appare stabile e forte come non lo è mai stato. Dopo la revoca delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite e dagli Stati Uniti e il completo ripristino delle relazioni diplomatiche libico-americane, il paese appartiene a pieno titolo alla comunità internazionale. A cominciare dal 2004 gli incontri del Leader, come preferisce essere chiamato dopo che nel 1973 ha rinunciato a qualsiasi carica formale, con i rappresentanti occidentali sono stati numerosi: Prodi, Blair, Berlusconi, Aznar, Sarkozy, Rice e molti altri. A questi si aggiungono le due visite storiche di giugno e luglio in Italia, primi viaggi di Gheddafi compiuti nel nostro paese, resi possibili solo dopo la firma del Trattato di amicizia tra i due paesi concluso a Bengasi il 30 agosto 2008.
Proprio questa normalizzazione delle relazioni internazionali e il nuovo legame con l’Occidente hanno permesso al regime di rafforzarsi, facendo eclissare ogni possibilità di “regime change” guidato dall’esterno e consentendo il rilancio della propria industria petrolifera, dalle cui entrate dipende sostanzialmente il mantenimento del potere di Gheddafi. Come nelle più classiche economie del Golfo, il regime, grazie ai proventi del petrolio e del gas, può distribuire la rendita alla popolazione attraverso la creazione di posti di lavoro pubblici, una politica dei prezzi controllata dallo Stato e un sistema di sussidi ai beni di prima necessità capace di fornire gratuitamente al cittadino libico tutti i servizi essenziali: scuole, ospedali e molte abitazioni. Il consenso e l’aiuto degli europei e degli occidentali è oggi richiesto proprio per il know-how necessario per il mantenimento della capacità libica sia di estrarre il petrolio che fornisce la rendita, sia di attuare il processo di distribuzione della stessa, che avviene grazie alla realizzazione occidentale, e soprattutto italiana, di molte opere civili e alla importazione di beni primari e prodotti finiti.
L’obbiettivo di Gheddafi rimane quello della conservazione del potere e oggi ciò può essere ottenuto solamente con una crescita economica che gli permetta ancora una volta di accreditarsi come “guida” del suo popolo. L’anelito rivoluzionario verso una società diversa, come auspicata nel Libro Verde da lui scritto, non è fine a se stesso. Anzi, dopo la rinuncia al “nemico esterno”, identificato a seconda delle circostanze nell’Italia colonialista o nell’America imperialista, esso è rimasto come fonte principale di legittimità del regime in un paese che, prima dell’arrivo di Gheddafi, era pressoché privo di una identità nazionale definita.
L’ammodernamento delle infrastrutture, le moderate aperture verso il mercato e il libero commercio degli ultimi anni hanno lo scopo di cominciare a dar vita ad una piccola e media industria che consenta di affrontare uno straordinario incremento demografico e le conseguenze da esso creato, prima fra tutte un’elevata disoccupazione giovanile. Grazie al fatto che l’economia libica negli ultimi anni ha goduto di buona salute, soprattutto per merito degli elevati prezzi petroliferi, il regime di Tripoli ha potuto avviare una progressiva privatizzazione dell’economia. Dal punto di vista politico la svolta moderata della Libia ha offerto le garanzie necessarie ai paesi e alle imprese straniere per operare con maggior convinzione nel paese. Tripoli, pur nelle incoerenze del regime, è dunque avviata sulla strada di una graduale e prudente riforma, che, minimizzando i rischi di destabilizzazione, possa attirare gli investimenti esteri fuori dal settore degli idrocarburi e diversificare l’economia.
Sul fronte interno il consenso sul principio dell’apertura economica pare non abbia grandi oppositori nonostante una sempre più crescente divisione tra le due anime della dirigenza libica: una riformista vera fautrice di una transizione in senso più occidentale e propositrice anche di riforme politiche che includano la revisione delle strutture del paese, anche nel senso della creazione di una costituzione che garantisca al cittadino libico doveri ma, soprattutto, diritti; e una vecchia guardia più attenta alle questioni interne, ad una ridistribuzione diretta al popolo dei proventi del petrolio, alla eliminazione di alcune strutture amministrative, e maggiormente resistente alla liberalizzazione dell’economia e più critica al riavvicinamento con l’Occidente, reputato troppo rapido.
Il dosaggio di tempi e modi dell’apertura spetta naturalmente a Gheddafi. Il risultato è che la politica economica libica rimane disarticolata e solo negli ultimi anni ha dimostrato una preoccupazione per lo sviluppo post-petrolifero. Le preoccupazioni del Colonnello sono essenzialmente di carattere sociale. I mercati, come indica il caso libico, non esistono in un vuoto amministrativo, sociale e istituzionale. Per creare mercati interni competitivi non è sufficiente eliminare quelle parti della burocrazia che controllano e regolano il flusso di beni e servizi, come è stato fatto con il tentativo di eliminare i ministeri. Lo stato deve attivamente dispiegare e creare gli strumenti a sua disposizione per portare a termine i difficili compiti di amministrazione e di regolazione indiretta per definire i diritti di proprietà, per fare osservare i contratti, tagliare i costi di transazione e, infine, promuovere una concorrenza reale. Intraprendere quindi il percorso della riforma economica significa, seppur progressivamente, mettere in discussione quel contratto sociale tra il regime e i cittadini basato sulla distribuzione della rendita proprio perché questa viene notevolmente riorientata. Questa, quindi, la preoccupazione principale di Gheddafi: quella di perdere la sua funzione principale di distributore di ricchezza. Riguardo a ciò vanno presi in considerazione due dati: l’80% circa della popolazione è nata e vissuta sotto il regime di Gheddafi e non conosce quindi sistema diverso da quello della Jamahiriya, lo Stato delle Masse; quest’ultimo ha comunque garantito condizioni di sviluppo sociale di testa tra i paesi dell’Africa del Nord con un 56esimo posto a livello mondiale secondo l’indice di sviluppo umano dell’Undp.
Alcuni fattori macroeconomici testimoniano il percorso intrapreso dalla Libia: buoni tassi di crescita degli ultimi anni, con un ruolo dominante del settore non petrolifero; elevate entrate petrolifere (esportazioni per più di 51 miliardi di dollari nel 2008 rispetto ai 10 miliardi del 2002) e connesse ingenti riserve valutarie. Alcuni importanti progressi in tema di riforme strutturali sono stati compiuti nel corso degli ultimi anni. Un buon numero di imprese pubbliche sono state privatizzate con la riduzione di un terzo dei dipendenti pubblici. Importanti banche sono state privatizzate e anche le banche italiane, nazionalizzate negli anni Settanta, stanno tornando in Libia. Nel 2007 la creazione del fondo sovrano Libyan Investment Authority ha accresciuto la trasparenza della gestione delle entrate petrolifere e sono cominciati i grandi investimenti in aziende occidentali, soprattutto in Italia (Eni, Enel e Unicredit le più importanti).
Osservando i settori di interesse dei fondi libici - quello energetico, bancario, finanziario e delle infrastrutture - si può constatare come la finalità sia quella di investire allo scopo di massimizzare i rendimenti, ma anche di ottenere partecipazioni in settori potenzialmente strategici per lo sviluppo libico. I fondi alimentati dalla rendita petrolifera vengono infatti impiegati principalmente per ridurre l’impatto della volatilità delle entrate petrolifere ma anche per garantire alle generazioni future gli stessi potenziali di crescita attuali: la rendita da capitale dovrebbe progressivamente sostituire la rendita petrolifera via via che si esauriranno le riserve di idrocarburi. Allo stesso tempo, essere azionisti in società che operano in questi settori è una garanzia rispetto agli investimenti italiani in Libia in quelle aree strategiche che sono essenziali nel processo di riforma economica.
Naturalmente questa trasformazione non può prescindere da un forte legame con i paesi più sviluppati. E questa è probabilmente, insieme al pericolo islamico interno, la motivazione principale che ha spinto Gheddafi nell’ultimo decennio alla svolta moderata, alle parziali ammissioni di colpa sugli attentati terroristici ed alle aperture agli Stati Uniti. Perché questo passaggio abbia pieno successo la Libia ha bisogno della comunità internazionale, dell’Europa e dell’Italia.