giovedì 16 ottobre 2008

Crisi finanziaria: è il declino dell’egemonia statunitense?

La transizione egemonica: un quadro non più solo teorico?
L’attuale debolezza statunitense appare nella sua complessità se alla crisi finanziaria si aggiungono le difficoltà riscontrate in campo politico (l’Iran, l’intervento russo in Georgia, …) e quelle in campo militare (Afghanistan, Iraq, anche se ora in maniera minore, e, più in generale una valida risposta all’asimmetria del terrorismo). Questi fattori di debolezza relativi ai tre pilastri su cui poggia la potenza USA, quella politica, militare ed economica, sembrano suggerire che il sistema internazionale si trovi di fronte al “crollo della superpotenza americana” e al suo “inesorabile declino”, richiamando alla mente i teorici delle relazioni internazionali che si sono occupati dei cicli dell’egemonia: lo storico Paul Kennedy, che delinea la caduta della superpotenza con l’incapacità di finanziare il proprio ruolo nel mondo con le risorse interne; il politologo Robert Nye che vede annullato anche il ruolo di “potenza soft” capace di esercitare il ruolo egemone tramite l’esportazione di cultura, valori e, soprattutto, modelli economici; il sociologo Robert Gilpin, che identifica i fattori di crisi dell’egemone nella maggior crescita dei costi del mantenimento dello status quo rispetto alla capacità economica di sostenere lo stesso; l’economista Charles Kindleberger che vede la crisi del 1929 come conseguenza dell’incapacità britannica di continuare a svolgere il ruolo di leadership nell’economia e nella finanza mondiali che aveva avuto prima della guerra mondiale.

Le conseguenze della crisi finanziaria nella politica estera statunitense.
Gli Stati Uniti soffrono sia di disavanzo pubblico che di disavanzo commerciale. A questa situazione ora si sono aggiunti ulteriori 700 miliardi di dollari per salvare le grandi banche e altre istituzioni finanziarie private. Probabilmente, secondo la maggior parte degli analisti internazionali, gli Stati Uniti attraverseranno una lunga fase di debolezza economica, che potrà riflettersi sull’influenza americana nel mondo. In un panorama simile è facile dubitare che la futura amministrazione americana continuerà a finanziare le operazioni delle proprie forze armate all’estero nella stessa misura attuale (circa un miliardo di dollari al giorno per l’Iraq). Questa necessità potrebbe spingere all’elaborazione di dottrine più selettive. Allo stesso modo gli investimenti militari e la spesa per gli armamenti potrebbero entrare nei capitoli di spesa da ridurre. Una relativa debolezza degli USA rispetto al passato potrebbe condurre a “vuoti strategici” anche maggiori rispetto a quelli che sono stati percepiti (ad esempio con la crisi del Caucaso) dalle potenze emergenti, Russia e Cina in primo luogo. In una prospettiva di più lungo periodo potrebbero essere proprio queste ad aprire la corse per colmare il vuoto lasciato dagli USA.

Crisi finanziaria e capitalismo: la fine del modello americano?
Nonostante la crisi finanziaria abbia coinvolto tutto il mercato mondiale, compreso quello dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), la causa della crisi è rintracciabile all’interno degli Stati Uniti. Alcuni analisti sono arrivati ad interpretare questa crisi come la “fine del capitalismo” o la “fine della globalizzazione” o anche la “fine del modello americano (o reaganiano)” basato su due concetti: i tagli delle tasse si autofinanziano; i mercati finanziari si autoregolano.
Il motore della crescita economica degli ultimi venti anni sono stati gli Stati Uniti. La globalizzazione ha finito per mascherare i problemi statunitensi: l’acquisto di dollari fuori dagli Usa ha consentito al governo americano di accumulare deficit godendo al tempo stesso di una forte crescita. Sul piano internazionale il “Consenso di Washington” e le istituzioni sotto l’influenza statunitense, come il FMI e la Banca Mondiale, hanno spinto i paesi in via di sviluppo ad aprire le loro economie.

Una nuova governance dell’economia mondiale? Chi la vuole e a chi conviene...
Oggi a mettere in dubbio l’attuale sistema economico-finanziario mondiale non sono più solo paesi con velleità anti-americane come il Venezuela di Chavez, ma ha vedere come inevitabile una riforma strutturale sono anche partner storici come i partner europei. Da molte parti si auspica la nascita di un nuovo sistema finanziario che poggi su valute diversificate e un ordine finanziario che non sia dipendente da quello americano. Pochi giorni fa Medvedev e Sarkozy si sono trovati concordi nella necessità di una “rifondazione del capitalismo finanziario”, hanno bocciato senza appello Banca Mondiale e FMI “sui quali grava un discredito troppo rilevante” e si sono detti favorevoli ad un ingresso dei BRIC nel G8 allargato in un consesso multilaterale da tenersi subito dopo le’elezione del presidente USA.
La crisi sembra poter favorire così le potenze emergenti. Ma neppure potrà essere sottovalutata la capacità di ripresa USA. La Russia, con un calo dei prezzi energetici e una struttura paese poco solida, come sembrano testimoniare le gravi perdite in borsa delle ultime settimane, e la Cina, con una economia molto dipendente dalle entrate derivanti dai mercati americano ed europeo (che saranno in forte rallentamento secondo gli ultimi dati FMI) e poco dalla domanda interna, non sembrano poter sopperire al ruolo di leadership economica statunitense. Anche per queste motivazioni la Cina fin dal primo momento ha sostenuto il piano di intervento dell’amministrazione Bush.
Allora come sostiene Paul Kennedy in questi giorni il declino statunitense potrebbe essere rallentato: “Non so se Obama farà come Filippo II di Spagna, ma a volte per preservare il potere si dovranno scegliere alcune aree di influenza e rinunciare ad altre. Filippo II scelse le sue priorità al massimo del suo potere. E la sua restò una grande lezione per rallentare il declino di una grande potenza”.